sabato 10 gennaio 2009

Proiezioni di distanze ancora da percorrere.

E poi, e poi, e poi. La storia è finita e andate in pace. Avrei milioni di cose da scrivere ma sarebbe tutto inutile. E poi. Ho passato più di due anni senza stendere una sola riga che continuasse il lavoro fin lì portato avanti. Ho solo sperimentato, nel frattempo, stili in stati di alterazione poco efficaci. Sotto effetto mariuana, sotto effetto hashish, sotto effetto whisky & birra, sotto effetto Aglianico + Nero di Troia + Laphroaig & Lucano. Una volta anche tutto insieme ma non riuscivo a vedere più la tastiera. Non ce l'ho fatta neppure a salvare il file. E' che uno, sperimentando, comincia a credere che qualsiasi cazzata scriva, abbia un valore. Non ne ha perché non tutti gli esperimenti hanno esiti positivi. Spesso è il contrario. Adesso il problema è differente. Tutto mi sta chiamando indietro. Gli scenari. I personaggi. Le storie. Mi vogliono indietro. Li ho lasciati a sé stessi per un bel po' di tempo. Non sanno dove andare e vogliono necessariamente trovare la strada di casa. Qualcuno dovrà pur accompagnarli e, mi guardo attorno, mi sa che mi toccherà per l'ennesima volta. Sembra pure superfluo parlarne perché questo, gli editori, non lo sanno. I lettori neanche se lo immaginano. Ti credono uno che si sforza a scrivere stronzate. Non capiscono che le sforzo che fai, semmai, è proprio il contrario. Lo sforzo di zittire i mondi interiori, di tenerli segregati e di spegnere la luce. Non lo capiscono che a certa gente una casa, una famiglia, un buon lavoro e tutto il resto non danno la serenità, ma creano inquietudine. Perché se sovrapponi una vita reale a quelle immaginarie che ti chiamano, devi per forza convincerti che quelle immaginarie hanno meno valore del resto. Devi traslarle su un piano inferiore. Non puoi dar loro conto se non riesci a pagarti la rata della casa. Saresti stupido. Io devo essere uno stupido, ma la vedo proprio così. Se non avessi una famiglia lavorerei soltanto per pagarmi pane acqua e fogli elettronici. Mi servono un mucchio di fogli elettronici. E il tempo per riempirli. Devo essere un pazzo. Ma non riesco ad essere altro. Se fossi stato Bukowski? Avrei lavorato come impiegato alle poste fino a cinquant'anni. Nel frattempo avrei scritto qualcosa, avrei giocato ai cavalli, avrei cercato di cambiare la mia vita e fino alla fine ce l'avrei fatta. Perché ero Bukowski.  Ma siccome non sono Bukowski a me nessuno mi dà la certezza che un giorno rimarrò al tempo come uno scrittore perché a lui sappiamo tutti come è andata. A me non lo so neppure io. Adesso so soltanto queste cose. Con le presenti memorie ho scritto una cazzata in più da gettare sul mucchio di roba che ho in cantina. Ho visto un film l'altro giorno in cui a uno scrittore gli arriva per la prima volta il pacco con le edizioni regalate del suo libro inviate dalla casa editrice e c'è accanto la moglie e la moglie gli chiede se è emozionato e lui apre il pacco e vede il testo e dice che è già tanto se hanno scritto correttamente il suo nome. Quello scrittore avrei voluto essere io, quella moglie volevo che fosse stata mia moglie che mi diceva quelle parole. Arriviamo al punto: quello che so è che io non avrò mai un'edizione in casa di un mio testo e che non ne parlerò privatamente con nessuno che conosco se mi dovesse capitare mai di avere un testo pubblicato. Continuerò quantomeno a rivedere tutto quello che ho scritto finora incessantemente. Se avrò il tempo darò ascolto a mondi e personaggi che si affacceranno nei miei spazi. Non abbandonerò la mia battaglia contro il meccanismo finché avrò soldi per una sola spedizione come Martin Eden. E nel frattempo sarò uno scrittore del cyberspazio. Un pioniere insieme a tutti quelli che continueranno. Ma la strada virtuale che percorrerò sarà la mia soltanto. Lontano da ogni corrente. Chi vorrà potrà seguire la scia. Quella non è soltanto la mia. Ho un corteo di personaggi che aumentano di alba in alba. Anche se sono immaginari, immaginarie sono le distanze che copriranno. Arriveremo in tanti, alla fine di questo strano viaggio che lo Zanichelli sembra chiami vita.                   

lunedì 5 gennaio 2009

Pubblicare un romanzo online. In tre parti.

Alla fine di ogni battaglia, ho sempre avuto indietro, un po' tumefatto, almeno me stesso. Ci metto poco a rimettermi in sesto. Ultimo esperimento. Io sono nato solo per sperimentare. Stili. Temi. Alchimie del verbo. E storie dalla contorsione inverosimile. Pubblicare un romanzo online. Parte prima. Scegliere il testo più diretto tra tutti quelli che hai scritto. Stronzata per stronzata, chissà perché, io ho scelto Skizzando nel vento. E' il più semplice da correggere.   Alleggerire la pesantezza del testo eliminando tutte le cazzate che non servono e incantano gli occhi del lettore portandolo a pensare ad altro. Modificare i titoli dei capitoli invogliando il lettore a cliccare sul nome del tuo post. Una volta dentro è fregato: o legge o se ne va affanculo. Testare i titoli dei capitoli su vari siti cercando di comprendere la migliore combinazione di lettere per catturare più lettori possibile. Pompare un po' il volume delle letture sui siti dove è possibile. Magari inserire un commento ingannatore con qualche saluto o dedica a qualche inesistente commentatore di vecchie pubblicazioni. O anche vero. Pubblicare un capitolo per volta. Attendere. Analisi: di tutto l'esperimento, diciamo che il commento ingannatore è quello meno funzionale allo scopo di catturare il lettore. Il lettore si infastidisce perché il testo non è dedicato a lui o si imbarazza quando magari gli viene dedicato. Se prima una volta ti ha commentato, adesso non se lo sogna neanche. Pubblicare un romanzo online. Parte seconda. Inserire da qualche parte una cazzo di trama del testo. Molto leggera. Puntata più sul contenuto diretto che su divagazioni sentimentali o filosofiche sullo stile e cazzate varie. Se nella trama vi sono forti provocazioni il lettore la prende a sfida e va a vedere che cazzo hai scritto. Attenzione però: il lettore poi parte col pregiudizio. Sforzarsi a rispondere ad ogni commento aumentandone il numero visibile dalla home. Più commenti ci sono e più uno è tentato di accedere al testo. Pompare il volume delle visite. Fa sempre bene. Certe volte non ti ricordi di averlo fatto e credi davvero di avere avuto tipo duecentoquarantadue lettori. Aumenta l'autostima. Attendere. Analisi 2: devo fare un'analisi per forza ad ogni parte dell'esperimento? Domande: e se non lo leggono neppure così? Non lo so vaffanculo, per adesso proviamo e poi ci pensiamo, ok? O forse vorrà dire per davvero che ho scritto solo cazzate. Pubblicare un romanzo online. Parte terza. Perseverare nel pubblicare i capitoli con ordine (es. una volta a settimana o ogni due giorni, ecc...) senza velocizzare in presenza di forti opinioni positive, né rallentare e demoralizzarsi in assenza di lettori e commenti. I lettori puoi sempre pomparli tu per poi dimenticartene. Una volta terminata la pubblicazione a capitoli su un sito, raccogliere dopo circa una settimana tutte le parti del testo e pubblicarle in un ultimo enorme file con il titolo di TITOLO (versione integrale). Meglio con commento visibile in home di ringraziamento per l'attenzione. Allegare al post tutti i commenti ricevuti con riferimento ai vari capitoli. Si ottengono in tal modo due importanti effetti: 1) Il numero di commenti ad opera appena pubblicata è già elevato ed i lettori si incuriosiscono; 2) Si intasa la lista degli ultimi commenti arrivati, molto spesso presente in home page. Questa procedura, va detto, fa molto incazzare tutti gli altri autori del sito. Ma cattura invece gli avventori occasionali nei giorni di presenza del titolo sulla home. Attendere.Analisi 3: Skizzando nel vento spaccò in due tutti i siti su cui fu pubblicato. Dopo incerti inizi e incessanti attese di giorni, qualcosa iniziò a muoversi intorno ad esso. Io non lo so che cosa fosse, so solo che le visite cominciarono ad esserci e non ce le aggiungevo tutte io. Erano frequenti. E man mano che andavo avanti con la pubblicazione, i vecchi capitoli venivano ripresi e forse letti. Era un romanzo vero e proprio con la sua romanzesca lunghezza. Le parti erano di circa cinque o sei pagine A4. Mi prefissi di continuare a pubblicarlo anche se non ci fosse stato nessun commento, ad oltranza. E di non commentare nessuno per il momento. Potevo spingerlo a sentirsi obbligato a ricambiare. Il test doveva essere alquanto scientifico. Era l'ultima reale possibilità che mi stavo dando. Dopo questa io e internet ci saremmo visti solo per i siti porno. Tre o quattro capitoli più tardi cominciai a capire che il tutto non mi bastava. Non avevo pazienza. Non ce la facevo proprio. Cominciai a rallentare le pubblicazioni. A salvare il tutto venne Arcel Nis. O meglio, il suo commento. Aveva letto la spregiudicata trama sul blog e aveva pensato di punirmi leggendo il primo capitolo del testo e smascherando la scarsezza di qualità. Lei stessa ammise di essersi ricreduta leggendo e prese a commentare ogni capitolo successivo, chiedendomi di continuare a pubblicarlo. Nel frattempo su tutti gli altri siti su cui era stato diffuso, il primo capitolo aveva ricevuto diversi commenti. Tutti riportavano la stessa lamentela. Troppo lungo per un monitor. Magari avendolo su carta sarebbe stato un buon testo. Già. Già. Diteglielo voi agli editori che non avevano voluto starmi a sentire. Diteglielo voi a Ladisa e alla Baldini&Calstoldi che in questi dieci anni chissà che cazzo avevano pubblicato di così eccezionale. Una piccola breccia si era aperta. Grazie a questa ragazza che neppure conoscevo e che faceva lo sforzo immane di sorbirsi quel gran malloppo praticamente ogni due giorni. All'ottavo capitolo smise di commentarlo. Ma ve lo giuro, mi aveva letteralmente, per la prima volta, fatto sognare per più di una settimana. Era la persona che per più tempo aveva seguito il testo e da quello che trassi dai suoi commenti, leggerlo per lei era ormai diventato un passatempo divertente. Io continuai a pubblicarlo. Le visite furono sempre di meno, anche se i capitoli precedenti venivano comunque ripresi. Persino il primo. Sugli altri siti non aveva lo stesso seguito, ma anche lì c'era qualcuno che tornava indietro a leggersi gli arretrati. Per la prima volta mi parve di avere un pubblico. Che forse non mi ammirava. Ma almeno seguiva quello che facevo. Il mio lavoro non era inutile.  Arrivai al penultimo capitolo ed un'altra piccola magia internettiana avvenne. Trovai un commento dopo dieci o undici pubblicazioni in cui nessuno aveva pensato di postare neppure un saluto o un mavaffanculo. Il commento era di un ragazzo che aveva frequentato il liceo in cui Skizzando nel vento era ambientato. Mi disse di averlo trovato per caso e di averlo letto tutto d'un colpo. Per lui era un bel libro. In più i ricordi di quell'epoca gli erano riaffiorati alla mente e lui diceva che il libro aveva questa capacità molto forte di rievocare. Era forse il suo scopo primordiale. Il motivo per cui era stato steso nel lontano 999. Dopo una settimana pubblicai il tutto in versione integrale con allegati i commenti di Arcel e del ragazzo della mia scuola. La pagina fu visitata da 1200 persone nei due giorni di permanenza in home. Sugli altri siti c'erano capitoli seguiti anche da quattrocento lettori. Commenti zero. O quasi. A me andava bene lo stesso. Avere la pallida speranza che qualcuno stesse leggendo il libro non mi faceva sentire più solo.  Alla fine su neteditor il testo raggiunse le 1424 visite con una contraffazione di sole 30 da parte mia. Diciamo che tenni l'indice al posto suo per vedere meglio cosa succedeva. Alcuni che scesero in paese per le festività natalizie mi fermarono per strada per complimentarsi. Per dirmi che avevano letto il testo. Che era un buon testo. Per la prima volta mi sentii uno scrittore e anche se non dovesse mai più succedere niente nella mia sottospecie di esperienza letteraria, signori! io ho un precedente. La mia leggenda letteraria si è compiuta. Perché Skizzando nel vento, mi guardai attorno, l'avevo scritto io. Non c'erano dubbi.          

venerdì 2 gennaio 2009

Un'intera adolescenza passata così.

Tornare soli ed in silenzio, dopo profondi confronti con tanta altra gente è alienante. C'è un tutto in costruzione e senza nessuno che ti avvisi, non se ne fa più niente. Il problema è aver avuto delle aspettative. Il grande Bukowski mi diceva spesso che se volevi vivere davvero, non dovevi averne. Nessun progetto. Perché i progetti falliscono sempre per quelli come me e come lui. Soprattutto quando si appoggiano su ciò che dovrebbero fare gli altri, oltre a te stesso. Le cose sono imprevedibili quando a costruirle sono i comportamenti dell'altra gente. Anche di quella che ti sta vicino. Improvvisamente quella gente potrebbe sparire come se non fosse mai esistita. Questo è ciò che mi era sempre successo ogni volta che si era riacceso il mio sogno letterario. Quando avevo iniziato a scrivere costantemente, intorno ai dodici anni, conobbi una persona che scriveva su un vecchio diario cose in versi. Ci affezionammo. Ci scambiammo gli scritti. Diventammo amici.  La roba che scriveva lui era fenomenale. Siamo cresciuti insieme scrivendo e leggendo le nostre poesie. Spesso ci incontravamo solo per commentarle. Andavamo a fare un giro nella villa comunale, sulla terrazza della vecchia casa di mia nonna, a passeggio tra le vie bagnate delle zone più antiche e desolate del nostro paese. Senza nessuna meta, ci vedevamo solo per parlarci di quello che scrivevamo.  Crescendo ho incontrato altra gente che scriveva. Un altro mio amico poesie ed uno ancora racconti e romanzi. Col tempo io ho creduto che il nostro fosse un movimento. Mi sembravano tutti appassionati di scrittura. Profondamente, voglio dire. Come me. Invece con gli anni il silenzio ha sostituito e distrutto tutte le parole che ci siamo detti. Ora io non lo so che cosa sono stato per loro, dal punto di vista letterario, ma posso dire con certezza che loro sono stati ogni volta la mia speranza. Il nostro incontro ha avuto qualcosa di magico. Invece di stare dietro alle ragazze o alle puttanate alla moda, noi amavamo la poesia e la scrittura senza per questo sentirci superiori agli altri. Abbiamo passato tutta l'adolescenza così. Con gli anni invece quest'amore è morto ed io sono rimasto l'unico fesso a continuare a credere che scrivere mi avrebbe salvato. La stessa cosa mi era capitata all'asilo quando portai le gomme di Braccio di Ferro e le diedi a tutti i miei amici per aumentare i nostri poteri e ribellarci contro la maestra. Quando ognuno aveva la sua gomma ed era arrivato il momento di passare all'attacco, io solo saltai dall'altra parte del banco e restai immobile, girato ad ammirare lo stile di disimpegno di ogni singolo compagno. Sembrava che non ci fossimo mai messi daccordo nel dover eseguire quella operazione. Tornai al banco con la testa china e capii che non se ne faceva più niente. Senza che nessuno me l'avesse detto. Certe volte avrei voluto avere lo stesso identico spirito di rassegnazione degli altri. La stessa capacità di smentire qualunque proposito, anche quello appena pensato. Di smentirlo veramente voglio dire, non così, giusto per contraddirsi. La forza della gente che rinuncia è davvero impressionante. C'è gente che riesce a farsi un anno intero o tutta una vita lontana dalla persona che davvero ama. Gente che riesce a seppellire i propri sogni passando un'esistenza di merda. Gente che rinuncia a se stessa o a quello che crede perché è troppo più facile seguire gli eventi piuttosto che forzare il destino per trasformarli. Questa gente secondo me ha una forza sovraumana. Lo spirito di remissione è qualcosa che io posso riuscire a provare soltanto per poco e rinunciare a quello a cui tengo per davvero è qualcosa che non ho ancora imparato a fare.   Il ritorno è la mia costante. La sconfitta quando pare che mi abbia abbattuto già mi sta restituendo il doppio delle energie che mi ha sottratto. Il fatto è che essendo stato sconfitto, di quelle energie, comincio a non sapere più che farmene. Perché non si arriva mai all'ultimo atto vero. Ogni fine nasconde un nuovo inizio. Questo è il 999. Ogni inizio contiene già la sua potenziale fine. Il tempo si dilata a cazzi suoi nel mezzo.       

martedì 30 dicembre 2008

Tre poeti che cavalcavano il duemila.

Questa era l'ultima volta che mi fermavo a pensare. Pensa, pensa. Non facevo altro. Ma mi incartavo spesso. Non trovavo i nessi fra le cose. Forse perché non ce n'erano. Non mi sembrava di poter individuare vie di fuga. Il meccanismo sembrava non presentare difetti. Taceva nel perpetuo movimento di sfornare libri di merda che chissà da dove cazzo li prendeva e si impuntava nel non rispondere ad alcuna richiesta di collaborazione. Quando rispondeva cercava soldi. A volte rispondeva scostante, con grande superbia. Mi chiedevo come avevano fatto gli autori che vedevo nelle vetrine a pubblicare i loro testi. A farsi rispondere dagli editori. A creare un contatto con loro. Sembrava non ci fossero umani dietro gli ingranaggi del meccanismo. Quando c'erano erano fantocci con la testa piena di stronzate. Un umano doveva esserci. Qualcuno da colpire al cuore. Questa era la missione che mi era stata affidata. Non avrei rinunciato finché non l'avrei portata a termine. Dovevo ricominciare dall'inizio. Dovevo acquisire l'esperienza che forse avevo voluto risparmiarmi, saltando la gavetta. Nei concorsi non ci credevo, nelle riviste ci credevo poco. Purtroppo, o per fortuna, continuavo a credere nel grande potere di internet. Trovare una soluzione al mio quesito era quasi tutto il senso della mia esistenza. Quello che mi mancava per considerarmi esattamente ciò che avrei voluto essere nella vita. Non avrei sprecato il tempo che mi rimaneva facendo la vita di un altro per poi pentirmi nel momento del mio decesso. Non era per me. L'ondata delle mejfy che mi aveva investito anni prima si era ormai rilassata col tempo. Lentamente era defluita nell'ultima raccolta Mejfy del dormiveglia preludio ad un sonno forse perpetuo dopo appena cinque anni di esistenza e cinque raccolte che ne avevano racchiuso il senso. Dopo avevo scritto soltanto qualcosa che sembrava una quasi inutile raccolta di poesie ed un'altra cosa per me sperimentale in cui per la prima volta nella mia vita letteraria erano stati costanti schema e rima. Musicalità del verso. Ricerca estetica più che di significato. Avevo tradito colui che aveva partorito il termine Mejfy o poesia vomito. Avevo tradito me stesso. Ma anche quelle ultime due raccolte erano le mie e come a tutto il resto, ci ero ormai affezionato. Il sogno di poter essere una specie di poeta a cavallo del duemila era stato un sogno assurdo. Questo l'avevo sempre saputo, fin da quando avevo otto anni ed avevo iniziato a scrivere cazzate in versi sulla macchina da scrivere olivetti che avevo chiesto per regalo di compleanno. Se quello era stato un gioco, allora lo era stato anche tutto il resto del mio tempo. Purtroppo in questa specie di magia la gente non aveva proprio voglia di credere ed un mondo che si stava sempre più personalizzando e frammentando difficilmente sarebbe uscito fuori dai propri spazi per aderire ad un movimento comune. Anche se fosse stato un movimento davvero speciale. Ci provai lo stesso. Mi piantai in internet. Cercai nuove strade. Trovai Poetika, un sito di poesia. I siti erano per me come le riviste di un tempo. La difficoltà era quella di creare veri consensi, formare una corrente. Le correnti si creano da sole però volevo vedere se avrei potuto aiutarne una a crearsi da sé. Su Poetika come benvenuto alla mia lettera di presentazione in cui elencavo band musicali, film, opere e autori che preferivo, ricevetti il commento di non essere uno che apprezzava la cultura 'alta'. Di essere dozzinale insomma. Di non essere chissà che gran colto. Dunque come potevo presentarmi come poeta? Senza aver neppure pubblicato ancora un testo, già mi davano al cazzo. Qui era in fase di sperimentazione il progetto di creare un movimento letterario. Certo, certo. Dopo tale esaltante accoglienza doveva essere proprio questo il sito giusto.  Risposi colpo sul colpo al personaggio che non mi lasciava pubblicare un testo senza irritanti commenti sullo stile, sul mio vocabolario e su una presunta perfezione linguistica che lui sembrava avesse in quanto laureando in lettere ed io no in quanto laureato in scienze dell'educazione. Mi creai il mio spazio a gomitate e quando fui finalmente in mezzo agli altri mi fermai a guardare dalla loro stessa visuale il campo letterario esteso presente nel sito. Non si muoveva niente. Poi vennero i venti buoni, ma erano lontani tra loro. Sparsi. Ognuno agiva a conto suo. Molti agivano bene, ma nessuno promuoveva nulla per aggregarsi in un vento comune. Creai qualche consenso, commentai un po' di testi buoni, trovai i nessi fra i vari autori, le simmetrie stilistiche e di contenuto. Trovai una corrente disgregata. Cercai di convogliarla in un'unica direzione, ma sembrava che nessuno volesse aderire a qualcosa di comune. Poi venne Siberian. Era un personaggio unico. Forse il primo vero poeta che mi era sembrato di trovare finalmente nella rete. Lessi tutti i suoi testi vecchi e mi stupii di volta in volta nel leggerne i nuovi. Gli scenari che sapeva tessere scrivendo erano disarmanti e l'immensa solitudine che sapeva rappresentare, stagliata in un contesto universale fatto di sfondi perfetti come le grandi opere dell'architettura greca, era quella stessa che tante volte avevo cercato di descrivere io, sempre rincorrendo una meta letteraria che lui riusciva a raggiungere ogni volta ed io raramente.  Avevo trovato un poeta a cavallo del duemila su uno sperduto sito letterario e viveva nella mia stessa condizione di inascoltato.  Ci mettemmo in contatto, scoprimmo diversi punti in comune, nel frattempo lui aveva letto i miei testi e mi confessò di aver pensato di me esattamente quello che io avevo pensato di lui. Quello che scrivevo spesso era quello che avrebbe voluto scrivere lui senza riuscirci. Eravamo una corrente e non lo sapevamo.  Fermi, fermi. Adesso ci eravamo trovati, ci demmo appuntamento sui f o r u m dove avremmo steso la nostra specie di manifesto confrontandoci costantemente. Nel frattempo a noi si era aggiunto un terzo soggetto dallo spirito davvero spregiudicato. Si chiamava Nothing. Un secondo grande poeta dopo Siberian. Scriveva assurdi e lunghissimi testi in versi stesi di getto, la sua caratteristica era la velocità, i suoi testi li leggevi e ti veniva il fiatone. Sembrava di correre. Eppure eri fermo. Ci innamorammo di lui esattamente come lui si innamorò di noi. Lo scambio era costante, ma quando si trattava di teorizzare, di tracciare le linee comuni e di proporre qualcosa di buono, sembrava che le nostre connessioni internet cominciassero ad avere problemi. Ogniqualvolta avessi lanciato una sfida nella mia triste esistenza letteraria avevo trovato gente, anche grande, che aveva deciso a priori di non accettarla. Anche quando sarebbe parso che avesse lo spirito giusto per farlo. Siberian mi comunicò che avrebbe abbandonato il sito per un po' e che quando sarebbe tornato avremmo ripreso da dove ora ci eravamo fermati. Senza di lui, anche Nothing cominciò a mettere passi all'indietro. Prima commentando i miei testi per puro dovere con frasi del genere 'sembra interessante appena posso la leggerò'. Il commento vero e proprio non arrivava più, ma a quel punto non era necessaria neanche la promessa. Poi relegandosi definitivamente nella pubblicazione dei suoi testi e nel commentare con piccole frasi qualsiasi testo gli capitasse a tiro. Nel sito più commentavi e più punti prendevi. Più punti prendevi e più potevi pubblicare. Io gli avevo detto che se mi commentava solo per i punti l'avrei fucilato. I miei testi erano abbastanza lunghi da digerire. Se doveva commentarli doveva leggersi i malloppi. Non mi commentò più. Quest'altra ennesima fantastica stagione letteraria volgeva al termine. Attesi Siberian per settimane e settimane con una mano sotto il mento senza pubblicare più niente. Poi capii che non sarebbe tornato. In fondo se di corrente si trattava, corrente sarebbe stata. Pubblicai il mio testo d'addio. Lo dedicai a Nothing, ma egli non lo commentò neppure. Un commento invece arrivò. Era di quello che mi aveva dato il benvenuto e che aveva attaccato quasi ogni mio testo e quasi ogni nostra mossa su Poetika. Diceva che con la poesia io non c'entravo niente. E questa non era una novità. E che mi mancava la famosa perfezione linguistica. E pensare che lui,  laureando in letteratura e così elevato negli spazi culturali più alti, in uno dei nostri scontri letterari, mi fulminò affermando che conoscenza si scriveva con la i. E vaffanculo si scrive con due effe o senza?                         

Ultimatum all'editoria italiana.

Adesso ero pronto. Il talento si crea. Decisi di creare il talento. Il talento era il caso. Convergere gli interessi sulla roba che scrivevo. Creare il caso. Usare la fantasia. Senza patetismi del cazzo, senza pensare che nulla fosse dovuto, conquistare un lettore alla volta e fare in modo che si affezionasse agli scritti perché un lettore non è altro che una persona che si affeziona ai tuoi scritti. Anche perché gli piacciono. E' chiaro. Sennò che legge, le stronzate? Io ero affezionato ai miei scritti. Anche se non mi piacevano. Dovevo trovare il modo di farmeli piacere. E di farci affezionare gli altri.  Cominciai come al solito dalle case editrici. Mandai email a raffica, avevo deciso di non investire più un solo soldo per la causa. L'email era una, uguale per tutte, esattamente come facevano loro quando rispondevano agli scrittori. Tutte le case editrici erano importanti. Nessuna era essenziale. Esattamente come loro consideravano gli scrittori. Bruciata una casa editrice, ne avrei cercata un'altra. Avevo dieci scritti pubblicabili. Una volta finito il giro delle case editrici con uno potevo iniziare con un altro. Nel frattempo magari se mi andava avrei steso qualcos'altro. Le mie risorse erano infinite. Come le vie del Signore. Come ultima riserva verso gli ottant'anni avrei potuto investire i risparmi di una vita per pubblicare un libro solo, a scelta, di tutti quelli che nel frattempo avevo scritto. Avevo anche quest'ultima possibilità. Se non morivo prima. Se morivo qualcuno avrebbe tentato di pubblicare la mia roba. Molti sapevano che avevo scritto. A qualcuno qualcosa piaceva. In omaggio alla mia morte avrebbe tentato di diffondere il verbo. In ogni caso ce l'avrei fatta. Di questo ero sicuro come il fatto che ero in grado di respirare. La prima email che fece il giro delle case editrici era esplicativa: breve presentazione autore, breve presentazione opera, dati anagrafici. La seconda email indicava i vantaggi di una eventuale pubblicazione di Skizzando nel vento: masse di quattordicenni che si strappavano i capelli, film campione di incassi all'esordio cinematografico e insomma soldi a palate. La terza email fu simpatica: 'so che non mi risponderete neppure ma tanto ho una pazienza infiniiiiiiiiiiiiiiiiiita'. La quarta direttamente offensiva: 'vi ostinate a pubblicare le stronzate e cazzo non volete prendere in considerazione questo capolavoro?'. Cercavo di spronarli. Ma non era per loro.  Capii che il metodo delle email andava messo da parte. Nessuna casa editrice rispose a nessuna delle email. Potevi chiederglielo semplicemente, cercare di convincerli, chiederlo con buon umore, offenderli. Il meccanismo continuava a girare senza scomporsi. Ticchettai con le dita sulla tastiera, guardai altrove. Bisognava cercare un'altra strada. Decisi di fermarmi per l'ultima volta a pensare. Poi non avrei più pensato a quello che facevo e si entrava nella fase non-me-ne-frega-più-un-cazzo-adesso-vi-intaso-posta-internet-e-buco-del-culo-e-vediamo-se-per-non-sentirmi-più-cominciate-a-darmi-retta-per-davvero. Stavo per dare di matto. O (dio preservamene) forse avevo già dato.

lunedì 29 dicembre 2008

Già. Già.

Decisi che non avrei scritto più niente. Pensai se avessi qualcosa ancora da completare, ma tutto prevedeva ancora lunghi tragitti per giungere alla meta. Per fare prima mi dissi che quanto avevo scritto poteva ormai bastare e non ci volevo pensare più. Mi concentrai sul correggere tutto quello che avevo scritto. Così. Nel caso in cui magari fossi venuto meno e a qualcuno fossero capitate per le mani le mie cose. Non si sapeva mai.  Cominciai con Malko. Lo ripresi dall'inizio e mi misi con la santa pazienza a ripercorrere ogni singola riga per correggere dapprima gli errori grammaticali. Poi eliminare delle parti che facevano un po' cagare. Poi inserire almeno un preambolo e un epilogo. Visto che c'ero anche un intermezzo. La santa pazienza non durava più di due pagine. Il testo faceva proprio ribrezzo. Soprattutto lo stile. Quelli del Foglio non la pensavano come me. Capii che avevo fatto bene a non dargli retta.  Finii il lavoro con una mano sulla faccia per non guardare. Nonostante la rifinitura questo testo non aveva ancora niente a che vedere con tutti i pareri favorevoli che aveva ottenuto. Era come Moccia. Non si meritava il successo. Decisi che l'avrei riscritto completamente. Ma non adesso. Adesso non mi andava. Ripresi il mio primo libro. Quello aveva una storia spettacolare. Ci misi mano e ce la tolsi dopo i primi tre righi. Mi veniva lo sconforto. Idee zero. Me lo rilessi e basta. Trattenendo i conati. Decisi che l'avrei riscritto completamente. Ma non adesso. Adesso non mi andava. Poi mi venne la fissa di andarmi a correggere un testo molto strano che si chiamava L'Opera. Il terzo in ordine cronologico. Avevo sempre pensato che non l'avrei mai pubblicato, ma sta a vedere che la chiave del mio successo fosse chiusa nell'unico cofanetto in cui non avevo ancora guardato? No, non c'era. Decisamente. Decisi che non l'avrei riscritto mai più. Non mi andava. E allora dove stava questo grande talento letterario che avevo creduto? Nell'era delle cavallette, è logico, me l'avevano detto pure alla Palomar. Ma vaffanculo, quelli neanche sapevano di che cazzo parlava il testo. No. Proprio dovevo smetterla di seguire il finto parere degli altri. Se c'era una cosa che dovevo fare era quella.  Ripresi Skizzando nel vento (guarda un po' chi è spuntato fuori). Pensai che se c'era un libro da sacrificare doveva essere lui. Senza fare tante storie.  Me lo rilessi stancamente con una forte riluttanza ad apportare correzioni. Andava corretta la mente dell'autore direttamente, lì. Rievocai la mia grande pazienza. Inspirai. Mi alzai le maniche corte sulle spalle. Accesi una sigaretta. Siamo alla resa dei conti. Tu da qui non esci in questo stato vergognoso, gli dissi. E partirono scintille immerse nel buio delle notti nello scontro frontale tra me di ventisei anni e me di diciassette e feci un casino di quelli mai visti. Lettere sparse sul pavimento, fogli accartocciati sparsi dappertutto, personaggi spiaccicati in faccia al muro. Sembrava una guerra. Chissà chi cazzo aveva vinto. Alla fine del tutto, ansimando, mi rilessi l'intero file. Mmm. Per me faceva ancora cagare. Però se avevano pubblicato Tre metri sopra il cielo... 

domenica 28 dicembre 2008

Un sensazionale scrittore di roba pulp.

A rispondermi, prima fra tutte, fu la Palomar Edizioni. Di Bari. Bruciò tutti sul tempo. E forse anche sul resto, dato che non si fece sentire più nessuno. Ma prima di loro a chiamarmi fu una mia amica che non sentivo da almeno sette anni. 'Tu sei pazza' le dissi, non credevo neppure che avese il mio numero. Non la frequentavo già più quando ci fu l'avvento dei telefonini. Mi spiegò che le era arrivato il mio manoscritto. A lei? Cazzo, avevo sbagliato indirizzo. Mi chiese se l'avessi invitato alla Palomar. Le risposi che sì. Mi disse che in quel periodo stava lavorando lì. Forse come segretaria. Mi vennero le lacrime agli occhi. Ricolleghiamo tutto. Io avevo inviato il mio manoscritto alla casa editrice dove lavorava una mia amica che tra l'altro aveva letto otto o nove anni prima un mio testo ed era stata una delle prima persone a dirmi che sarei (certamente) diventato uno scrittore. Era fatta. Adesso, sì, era davvero fatta. Questo era un segno del destino, sicuramente. Il cerchio che si chiude. Io che pubblico il mio testo pulp, divento uno scrittore e la sua profezia che si avvera. Per mano sua stessa, tra l'altro. Mmm. Tutto sembrava come doveva essere. Ma non sapevo che influenza avesse lei sui grandi capi. Magari era fidanzata con il capo redattore ed ecco che una delle leggende letterarie più diffuse si sarebbe concretizzata. Mi disse che lei coi vertici c'entrava poco. Poteva provare a parlarci. Adesso vedeva cosa si poteva fare.  Con il testo nelle sue mani mi sembrò di non avere più nulla da aspettare. Quasi quasi mi riprendevo la mia vendetta su tutti quanti annunciando loro che sarei diventato uno scrittore. Alcuni giorni dopo mi chiamò un ragazzo. Era della Palomar. Avevano letto il testo. Erano rimasti entusiasti. Soprattutto... e attaccò con una serie di elogi sul versante stilistico. L'era delle cavallette. Accesi il computer, valutai il nome del file. L'avevo scritto io. Non c'erano dubbi. Stava parlando con me. Mi annunciò che avrebbero pubblicato il testo. Bene. Bene, bene. Mi spiegò che però le case editrici come io potevo già ben sapere, chiedevano un aiuto all'autore perché investire su un giovane era comunque rischioso. Ma qui si andava a colpo sicuro, eh.  Beh, se si andava a colpo sicuro, questo cazzo di aiuto a chi gli serviva? Sì, sì, vaffanculo, è il mio contributo che volete? E prendetevelo, qui si va a colpo sicuro. Il testo è... e attaccai a rievocare tutte le dolci parole che erano state pronunciate sullo stile con cui era steso il teso. Come avremmo dovuto fare? Dovevo presentarmi da loro. Al più presto. E il contributo? Dovevo portare assegni, il codice del mio conto in banca, lasciare la mia macchina come caparra? O vendermi direttamente il culo per la strada? Ne avremmo riparlato una volta lì. Mi fiondai a Bari giusto il tempo di organizzarmi. Cioè quasi il giorno stesso.  Salii nel bell'appartamento che erano gli uffici della Palomar. Uno scrittore stava appena uscendo con la sua bella copia rilegata in mano. Pareva soddisfatto. Lo salutai sorridente. Non mi cagò. Ehi, coglione, sono uno scrittore anch'io, che cazzo credi? Guardai dentro. Un'enorme libreria sulla parete davanti al banco della segreteria dietro la quale se ne stavano due ragazze affascinate da quel nuovo scrittore che era appena arrivato, si appoggiava alla parete di fronte e finiva nei meandri del corridoio. Lo scrittore che affascinava ero io. Non c'erano dubbi. Puro talento anarchico. Mi ero presentato come mi vestivo tutti i giorni. La mia amica non c'era. Non mi aveva più chiamato da quella telefonata. Qualcosa era andato storto. Forse si era lasciata col caporedattore con cui forse era fidanzata. Feci per chiedere di lei, ma il ragazzo che mi aveva telefonato giorni prima accompagnato da una tipa tutta sorrisi, mi venne incontro, allungando una mano. 'Tu devi essere...' mi strinse la mano calorosamente, tirandomi verso la porta aperta di una stanza. Con la testa voltata nel vano tentativo di trovare quel volto conosciuto, mi lasciai trascinare. Forse lei era cambiata. Magari era una delle due che stavano dietro la scrivania. Certo che era cambiata parecchio, allora. 'Allora...' il ragazzo-redattore attaccò con un discorso preso da dietro dietro su quanto fosse eccezionale lo stile con cui avevo steso il mio testo. Sulla scrivania campeggiava L'era delle cavallette. Era il mio. Non si erano sbagliati. Mi disse quello che potevamo farne. Ad esempio intrecciare i capitoli per confondere le idee ai lettori. Poi la mia sembrava una sceneggiatura di un film. Magari potevamo proporlo ai registi baresi. Io pensai a Piva, quello della Capagira. Glielo dissi. Mi dissero bravo. Naturalmente l'avrebbero presentato ai concorsi, alle riviste, alle librerie, al Papa, al Presidente del Consiglio. Avremmo fatto una pubblicazione internazionale. Internazionale? Non mi sembrava vero. Ecco che cosa succedeva a scrivere qualcosa di genere. Stavolta ci avevo visto giusto. Non come gli altri merdosi testi che non si capiva neanche di che genere fossero. A me non mi mancava saper scrivere. A me mi mancava che non avevo mai scritto una cosa ben delimitata in un genere definito. Dare una definizione precisa a tutto. Ecco. Scrivere qualcosa di definibile. Adesso l'avevo fatto. Ero uno scrittore.  Chissà se avevano trovato il mio errore. Chiesi se ne avessero rilevati. Mi risposero di no ed attaccò a parlare la ragazza. Aveva uno sguardo ipnotico. Non era neanche bella, ma aveva un cazzo di sguardo per davvero strano. Non capii cosa disse ma mi convinsi che dovesse necessariamente essere vero. Qualcosa cominciò a girarmi nella testa. Cercavo di chetare la sua insistenza, ma non v'era modo. Non avevano trovato nessun errore. Cazzo l'avevo trovato io che quando rileggevo i miei testi pensavo a tutt'altre stronzate! Mmm... decisi che avrei indagato e lasciai che continuasse a parlare a raffica, mentre elaboravo la mia domanda trabocchetto. Nel frattempo si era aggiunto un terzo personaggio di mezza età con barba bianca ed occhialini sul naso. Un dottore. Forse avevano l'infermeria ed ora stava senza fare un cazzo ed era venuto a sentire di cosa parlavamo. Chiesi se il protagonista, David McCarry, col suo starsene sempre vestito da spaventapasseri, non fosse fuoriluogo, in un testo pulp. Si guardarono in faccia. Risposero che non era assolutamente fuoriluogo, scuotendo contemporaneamente la testa. Bene.  Allora era tutto a posto. Sì. Decisamente. Se David McCarry non era fuoriluogo, elaborai che dovesse essere tutto a posto.  Se non fosse che i protagonisti del mio testo erano tutti italiani con nomi italiani e David McCarry, sì avevo scritto un libro su di lui, ma non era L'era delle cavallette. Tutto a posto. Non avevano letto il libro. Annuii e pensai al da farsi. Una volta uscito se avessi trovato la mia amica l'avrei spezzata in due anche se non c'entrava niente. Era un buon proposito. Arriviamo al contributo. Lo chiesi. Mi sembrava come vagamente che stessimo perdendo un po' il tempo. Dato che non stavamo parlando di niente. La cifra era la modica somma di 5000 euro. Ce l'hanno tutti. Come i denti, gli occhi, le unghie. A chi mancano 5000 euro da regalare ad una qualunque Palomar? Tossii. A me sì. Mancavano. Tossii ancora. Lo dissi più forte. Si zittirono improvvisamente. Poi buttarono le mani avanti. E ripresero, stavolta a fargli forza c'era anche il dottore. Potevo fare un finanziamento, chiedere un prestito ai parenti oppure magari chiedere del denaro al mio comune che aveva fondi per la cultura inutilizzati e poteva fare un concorso ad personam per farmi ricevere quella cifra. A me già se li doveva fregare il nostro sindaco quei soldi. Ero proprio sfortunato.  Dissi che mi sarei organizzato. Lo promisi. Mi sarei fatto sentire al più presto, appena raccoglievo i soldi. Sì, sì, una pubblicazione internazionale. E chi ce l'aveva al primo colpo? Neanche a Stephen King gli avevano fatto questa proposta sensazionale. Me ne andai contento come lo scrittore che era uscito quando io ero entrato. La mia amica restò integra perché non la trovai. Le due ragazze pensarono guarda quest'ennesimo coglione come si fa inchiappettare dalla donna dallo sguardo ipnotico.  Il fatto è che o sto ancora raccogliendo i soldi oppure non ho più risposto alla Palomar. Che scelgano pure.             

sabato 27 dicembre 2008

Non prendetevela con me. Incazzatevi con la mia ispirazione.

Per una strana deformazione caratteriale, mi ero sentito spesso vicino ad esplodere nel mondo letterario. Senza un contratto effettivo di pubblicazione. Senza un vero e proprio seguito di lettori. Senza i testi giusti. Soltanto perché molte cose le gestisce il caso ed io nel caso avevo piena fiducia. Era il mio vero dio. Il caso mi aveva avvicinato in qualche modo al boom. Il talento si crea, il talento non esiste. Quindi ero veramente stato vicino alla materializzazione nel pantheon degli Scrittori, ma ero sempre rimasto appena sotto la soglia di percezione. Come in un perenne quarto posto che non prevede il podio, mentre altri si alternavano nei primi tre. Di tutte le mie entrate in scena non era rimasta traccia. Questo non andava bene. Le idee degli altri, i libri degli altri, anche quelli che avevano un successo senza pari non mi sembravano tutte queste cose geniali da meritarsi gli onori che ricevevano. Neanche le mie certo. Ma neanche lo zero letterario che avevano ricevuto. Prima smisi di acquistare libri. Poi smisi definitivamente anche di leggere.   Mi sentivo depresso. Avevo preso a lavorare tutti i giorni per dodici ore almeno al giorno. Con un solo giorno di riposo che spesso saltava per esigenze aziendali. Andò avanti così per due anni. Ogni giorno mi dicevo 'scriverò ancora qualcosa, scriverò, devo solo aspettare' ma ogni giorno ero sempre più stanco e smettevo di seguire tutte le idee che mi avevano saturato la mente tempo prima. C'era un rifiuto sempre più netto. Come se quelle idee mi avessero ormai stancato. Pensare a scrivere non mi provocava più alcun piacere. Mi convinsi che quello che mi mancava era solo un bel posto di lavoro. Io che il primo libro che avevo scritto, lo avevo scritto contro ogni conformismo e attaccando tutti quelli che se ne sarebbero stati a leggerlo in poltrona immersi nel tepore di casa, invitandoli a leggerlo in mezzo alle tempeste, stando in piedi e camminando, con frenesia, mi ero ormai conformizzato. Non c'era più nessun battello ebbro. Solo un vecchio natante arenato con gli altri nel cimitero delle navi di Chittagong. Presi a fumare maryuana tutti i giorni per calmarmi. In alternativa cercavo di bere il più possibile. Passavo le estati intere ubriaco. Chi tentò un approccio con la mia mente definì il tutto rifiuto della paternità. Nonostanto il bene che volevo alla mia bimba. Mi sentivo inadeguato. Soprattutto come padre. La mia non era una vita sbagliata. Di sbagliato c'era ciò che era successo prima. Aver preso a scrivere senza che ce ne fosse motivo. Come quando ti spingi oltre la tua portata e in un certo qual modo ti rovini la vita. Essere convinti di aver sfiorato l'apoteosi e poi guardarsi allo specchio alla fine di una stupidissima giornata di lavoro e vedere la tua faccia che riconosci sempre meno porta un grande sconforto. Ti dici che non stai facendo niente. Che non stai andando in nessuna direzione. Che hai deciso di aspettare la morte come la gente a cui cercavi di scuotere la coscienza. Iniziai a sentirmi ipocrita. E mi cullai con la mia mediocrità pensando che tanto una vita vale l'altra e vaffanculo. I discorsi letterari con chiunque terminarono definitivamente. Se capitava che qualcuno mi chiedesse qualcosa riguardo allo scrivere, così, tanto per farmi piacere, rispondevo che io ormai non scrivevo più. Era stata una cazzata adolescenziale. Anche Rimbaud aveva fatto la stessa cosa a 21 anni. E forse era proprio vero che a certa gente questa cosa capitava. A me era capitato.  Mi dispiaceva soltanto di non aver concluso gli ultimi due testi che mi mancavano e che erano fermi ormai a circa centocinquanta pagine l'uno. Credevo che sarebbero stati i miei migliori testi di sempre. Ma ormai non mi importava più neanche di quello. Forse, mi dissi, un giorno mi concederò di completarli così avrò finalmente il piacere di leggere la loro storia dall'inizio alla fine. Così, per sapere almeno come vanno a finire.  Smisi di guardare le vetrine delle librerie. L'ultima volta che l'avevo fatto compeggiavano davanti a tutti una serie di testi tutti uguali  con titoli alienanti: Tre metri sopra il cielo, Ho voglia di te, Scusa se ti  chiamo amore, Notte prima degli esami e altri tre o quattro  che neppure ricordo. Pensai a Skizzando nel vento. Avrebbe fatto la stessa squallida fine. E in fondo era quello che si meritava. Ma ormai pure il suo tempo era passato. Il mondo aveva forse capito l'inganno e non avrebbe accettato di valutare una cazzata sugli stessi temi.  Anche se poi magari come qualità c'era qualcosa in più.  Mi ero svegliato tardi. O forse ero solo stato sfortunato a non trovare i giusti editori. O forse per davvero la mia roba non era all'altezza. Era una possibilità.  Una notte mi misi a rileggere l'ultimo testo che avevo scritto. Quello pulp. Mi era venuta un'idea, avevo cercato di non darle ascolto, ma mi era venuta e non se ne andava più. Andai a rileggere il testo, modificai la parte al cui riguardo la mia idea aveva premuto per una correzione e finì che mi rilessi tutto il testo. Come al solito pensai che non aveva niente che non andava. Me lo rilessi ancora. Non lo so se mancava qualcosa, ma a me decisamente piaceva più che dispiacere. Pensai di stamparlo. Lo rilessi stampato. Cazzo, tranne un errore abbastanza stupido verso le ultime pagine, mi sembrava proprio una buona storia. Ne stampai altre nove copie. No, volevo solo sapere se era solo quell'errore ad essere presente o se magari ce ne fossero altri. Trovai dieci case editrici su internet. Avevo proprio una fottuta curiosità a riguardo, possibile che non ci fossero altri errori? Decisi di vedere che ne pensavano quei dieci editori. Spedii le copie. E pensai adesso non me ne frega un cazzo, ve lo mando a ripetizione finché campo perché cazzo davvero se c'è un altro solo errore io devo scoprirlo. E gli altri testi? Pure pure, a suo tempo. Non passerò certo la vita dello scrittore, ma potete ficcarvi tutti un dito in culo se pensate che dopo aver scritto i dieci migliroi libri della storia accetterò di buon grado che dieci dementi che si definiscono Scrittori continuino a prendermi in giro da quelle cazzo di vetrine delle librerie. Ho scritto tutto così veloce che ho ancora tutta la vita davanti. Bene bene. La utilizzerò per rompere i coglioni utilizzando tutti i mezzi che conosco e quelli che mi inventerò. Di fantasia a volte ne ho tanta.          

venerdì 26 dicembre 2008

L'ultimo pezzo di un ponte verso un futuro che ancora non si è capito

La cosa dunque doveva diventare segreta (la cosa quale?). Non ne ero molto convinto, ma l'unico modo per non entrare in conflitto col mondo esterno era quello di difendere il mio spazio. Senza farci entrare più nessuno. Era un posto riservato. Giusto per uno. Nemmeno per due come avevo creduto quando la persona che amavo ci era voluta entrare per forza.  Ed io ripresi a tessere i miei scenari per me stesso. Non mi sentivo egoista. Mi sentivo un privilegiato ed ero contento di essere me stesso. Così potevo valutare in anteprima le mie stesse idee e seguire i miei percorsi immaginativi verso assurdi luoghi inesistenti. Ora, lontano dalla confusione del mio primo distacco dal mondo sociale, mi resi conto che forse avevo finalmente sistemato i miei conti con ciò che scrivevo. Avevo rinnegato tutto. Anche il fatto stesso di aver scritto. Adesso ero oltre. Dovevo semplicemente smetterla di farmi coinvolgere emotivamente. Però, pensai, se quello che devo fare è nascondere al mondo esterno che scrivo, la mia vita, questa vita, quella esteriore, a che cosa mi serve? A questo punto quello che mi mancava per realizzare il mio progetto di vita era la mia lurida e minuscola stanza d'albergo alla Fante o in subaffitto alla London. Certo che portarci la mia famiglia non sarebbe stato il massimo. E poi di che avremmo vissuto? Però che volete? Uno un cazzo di progetto di vita, pur di merda che sia, non può neppure averlo? Deve fare quello che deve fare e basta? Quello che gli è richiesto? Quello che il mondo si aspetta? Ero molto annoiato e non mi andava di creare complicazioni solamente per vivere come avrei voluto. Preferivo annoiarmi per il resto della vita rinunciando a seguire quella che ero convinto fosse la mia strada. Pensai che tanto le occasioni prima o poi ci sarebbero state. Avrei conciliato le due cose, vivere e scrivere. Pensai che ora per un po' mi sarei concesso più alla vita che alla scrittura. Non doveva essere male. Avevo una moglie troppo bella. Una figlia troppo bella. Un lavoro che mi permetteva di vivere senza grossi sforzi. Poi col tempo avrei avuto una casa mia. Forse una mia stanza dove mettere la mia roba, il mio computer, la mia scrivania. Forse un po' di soldi da investire. Nel frattempo avrei continuato a scrivere. Roba sempre migliore. Avrei migliorato lo stile, ponderato di più sulle trame dei testi e cose del genere. Quando mi sarei sentito pronto avrei lanciato alla storia il primo testo del più grande scrittore vivente. Ero io. Non potevo sbagliarmi. Ma c'era qualcosa che non andava. Come sempre. Cominciai lentamente a non sentirmi più me stesso. Mi concentrai sul lavoro. Sull'accumulo del denaro. Mi laureai senza volerlo veramente. Cominciavo a ricoprire dei ruoli. Ad essere assorbito da questi. A non riuscire a divincolarmi. Non mi sentivo più libero. Neanche quando scrivevo. La mia mente si stava schematizzando. Non concepivo più la follia. Mi sembrava sciocca. Non concepivo più i colpi di testa, le irrazionalità. Non capivo più a che cosa potesse servire scrivere una mejfy. Peggio ancora un romanzo. Che valore potesse avere. Tutto si stava schiarendo nella mia mente. Oppure tutto si stava oscurando. In ogni caso più capivo e più non capivo che cosa avessi fatto a fare certe cose. Anche se le avevo fatte il giorno prima. Mi sembrava di girare a vuoto, senza concludere niente. Era quello che avevo sempre fatto, ma la differenza era che non mi stava più bene, adesso. Prendemmo finalmente casa nostra. La stanza in cui avrebbe dovuto esserci la mia roba e quello che avevo scritto non c'era, ma andava bene lo stesso. Gli zaini con tutti i testi che avevo steso dall'età di dodici anni finirono relegati in garage in un'umida cantina dove non c'era neppure la luce. Questo perché in casa ci serviva spazio per un enorme corredo di merda che non avremmo mai usato in tutta la vita. Occupò un intero armadio e pace all'anima degli spazi mancanti. Quando ero piccolo e cominciai a scrivere pensai che un giorno avrei avuto una libreria con tutti i miei testi pubblicati. Nella mia folle fantasia credevo che sarei riuscito a riempirla tutta intera soltanto con quello che avrei scritto. Neanche fossi Stephen King che scrive venti libri l'anno. Adesso una libreria ce l'avevo. Pubblicato non avevo pubblicato un cazzo. Tranne le tre sottilissime copie dell'antologia che conteneva cinquanta poesie di altri e una sola mia. Non credo che sarei risultato molto intelligente a mia moglie ed a chiunque a metterci dentro le copie stampate in A4 di quello che avevo scritto. Dopo tutti i trascorsi conflittuali su quello che avevo scritto con ogni persona che avevo conosciuto, tra l'altro. Pensai che quella fantastica idea che mi aveva seguito per anni era da bocciare. Era molto più interessante l'umida cantina del garage. Nel frattempo avevo scritto un libro la cui storia mi era venuta in sogno una notte ed il primo testo veramente di genere che fossi riuscito a mettere insieme. Era un pulp a tutti gli effetti. Anch'io potevo scrivere cazzate a cui si poteva dare una definizione. Pensai e adesso che farò? Continuerò a scrivere o sono finalmente soddisfatto? Dopo un testo di genere era come se avessi provato l'unica droga che mi mancava, nella vita. Mi risposi se mi viene continuo se no vaffanculo a voi e a chi cazzo vi ha fatto leggere tutta la roba che vi ha fatto leggere.  Erano passati tre anni ed in tutto i sette in cui avevo scritto tutto quello che uno scrittore medio scrive in una intera vita. Io la mia ce l'avevo tutta di fronte. Ed ero finalmente libero dalla preoccupazione che sarei morto presto perché da quel giorno in poi, almeno in fatto di materia letteraria, mi sarebbe andato bene morire in qualsiasi momento. Bene. Adesso mi mancava soltanto di capire quando e come cazzo avremmo usato il fantastico corredo.      

Un posto dove scrivere non significa più che sbadigliare

Hai presente quando arriva il fatidico momento in cui non sai davvero più che cosa fare? Hai esaurito le risorse. Ami una ragazza ed hai provato a cambiare tutti i tuoi comportamenti. Non hai ottenuto nessun progresso come se quella sia per te una strada chiusa e non dovresti più neanche pensarci. A me mi è capitato nella vita che ogni volta che ho smesso seriamente di pensare a qualcosa che desideravo per davvero, quel qualcosa, come se non attendesse altro, cominciava a materializzarsi sotto i miei occhi. Sai cos'è? E' inevitabile che poi di nuovo riprendi ad interessartici perché sembra che stavolta non ci sia dubbio che lei ci stia. Sembra. Appunto. Forse anche stavolta sarebbe stato così. Però il destino è quantomeno disattento. Se avessi smesso di pensare a quello che scrivevo, dato che non avrei neppure tentato di pubblicare più niente, chi mi avrebbe mai tirato fuori la questione, un giorno? Dall'altra parte continuare a provarci vedendo teste che si voltavano cercando una via di fuga non dava poi il massimo della soddisfazione. Cominciai a sognare i circoli letterari. Leggevo Mallarmé e rimanevo sovrappensiero per ore ad immaginarlo leggere i suoi testi nei caffé parigini mentre una folla intontita da fumo e alcol, ma tesa all'ascolto di quei versi, se ne stava a prestargli attenzione con interesse reciproco. In una cittadina del sud Italia all'inizio del nuovo millenio presentarsi in un pub e cominciare a leggere i propri testi avrebbe fatto pensare che non ci stavi più col cervello. Pensai ai ragazzi dell'attimo fuggente, quelli che si riunivano nelle grotte per leggere i testi proibiti dalla cultura accademica e proporre le loro composizioni. Mmm. Ho già parlato dell'effetto urticante che aveva il tema scrivere sui miei amici? Io ero nel posto sbagliato. Il posto in cui scrivere e leggere non serviva a niente. Il posto in cui la gente viveva senza occuparsi più di dare un significato non pratico alle cose scritte. Ogni tanto qualcuno mi parlava delle cose che aveva letto. Mia moglie si leggeva Ammaniti e Baricco. Qualcuno mi confessava che avrebbe voluto leggere qualcosa di veramente bello, di veramente nuovo. La mia roba si ragnatelizzava nella memoria di vari computer. Il mio. Quello di mio padre. Quello dei miei suoceri. Erano i posti dove avevo scritto. Lì c'era la mia essenza letteraria. E lì sarebbe morta. Adesso non potevo più commettere nessun errore. Parlai alla gente di ciò che aveva letto senza confrontarlo con niente di mio. Lasciai mia moglie leggere Baricco e Ammaniti e le comprai anche altri testi loro mentre cresceva il volume di roba mia che non aveva letto. Diedi a chi mi chiedeva qualcosa di forte il vagabondo delle stelle di Jack London. Un gran libro. Smisi di mettermi a confronto con il mondo letterario, come se non ne avessi mai fatto parte. Neppure da semplice amatore. Scoprii diversi giochi per pc molto interessanti (GTA II, Alice nel paese delle meraviglie in chiave dark, War Craft, Crazy Taxi e altri). Mi scoprii molto interessato a loro. Scoprii diversi film interessanti. Mi scoprii molto interessato a loro. Ed anche se ogni tanto nella mia mente immaginavo evoluzioni letterarie di quelle storie e della poca roba che ancora leggevo, cominciai a passare giornate intere a giocare allo stesso gioco o a guardare sette o otto film di fila. Ogni volta mi fermavo solo a mangiare. Mmm. Questa era la degna alternativa al McCallan, alla macchina da scrivere ed alla finestra sul cortile che avevo sognato un tempo. Nessuno mi cercò più per parecchio. Ed io segretamente, nella mia mente, continuai a scrivere. Tutti dovettero pensare che fossi guarito dalla letteratura. Non era così.      

giovedì 25 dicembre 2008

Quando uno scrittore scompare senza che nessuno vada a Chi l'ha visto?

Se camminassi sempre diritto senza mai voltai indietro ed il mondo ti si cancellasse alle spalle di passo in passo, ma così silenziosamente che neppure l'orecchio più fine potrebbe percepire nulla, che cosa faresti se, forse per vedere magari quanta strada hai percorso, ti girassi un'unica sola volta e te ne accorgessi tutto d'un colpo? Qualcuno mi stava cancellando il mondo alle spalle. E l'aveva fatto benissimo. Aveva minuziosamente rimosso dalla testa di chiunque e contemporaneamente l'idea che io fossi mai stato uno scrittore. Nessuno lo ricordava. Gente che aveva sempre letto le cose che avevo scritto e che mi aveva quasi costretto a parlarne, gente che si incazzava se capitava che scrivessi qualcosa di nuovo informandola con ritardi di appena un giorno, assidui frequentatori e commentatori dei miei testi internettiani. Tutti, nello stesso preciso istante, dimenticarono come per magia tutta la strada fin lì percorsa. Improvvisamente nessuno mi parlò più del fatto che ogni tanto univo lettere per comporre frasi che, unite, componevano testi. Sembrava essere diventata improvvisamente una blasfemia. Pensai che forse ero andato troppo oltre, ma non con i temi, con la profondità della mia ricerca. Con i tempi. Avevo rotto il cazzo a tutti. E tutti mi abbandonarono quando ero ancora appena alle soglie della mia follia. Bello è che verso quella follia, in parte, mi ci avevano spinti loro. I cazzo di temi letti di volta in volta in classe con le ragazze che crollavano in lacrime dopo i primi due o tre capoversi. O con tutti che non riuscivano a trattenersi dalle risate quando la roba prendeva pieghe ironiche. Ragazze a cui non mi ero mai presentato ed a cui avevo scritto lettere che le avevano fatte innamorare e venire da me piangendo per conoscermi. La mia ragazza che delle volte sembrava che mi amasse quasi già soltanto per ciò che le facevo leggere. Amici che mi avevano convinto che i miei testi dovevo per forza farli pubblicare perché avrebbero cambiato il corso della storia letteraria. Intere mattinate della più bella estate letteraria passate a parlare di quando i miei testi sarebbero stati diffusi... Uno ci voleva fare persino un film con Malko. Tutto svanito nel nulla più oscuro. Iniziai a percepire qualcosa di strano. Che stava accadendo per davvero, non era una mia impressione. Se provavi a tirare in ballo la questione dello scrivere, la gente (chiunque fosse) cambiava discorso immediatamente. Certe volte iniziava a cambiare discorso se nella mia frase associavo insieme già la lettera S con la C col suono duro. Magari per dire un'altra cosa. E per occuparsi di cosa, poi? Delle cazzate più totali. Tu davi l'anima per un attimo. E loro preferivano parlare di un film troppo fesso che avevano visto. Oppure della malattia che aveva preso uno che neanche conoscevi. Che neanche conoscevano loro. Non era un caso, era tutto ben studiato. Ed io me lo studiai di rimando. All'inizio non attendevo nemmeno che finissero la momentanea interruzione per riprendere il filo del discorso. Poi cominciai ad attendere. Ma le interruzioni si facevano sempre meno momentanee. Alla fine decisi di non intralciare: appena il discorso cambiava, facevo finta che me ne dimenticavo pure io, appassionandomi immediatamente alla stronzata del giorno. Sembrava che ne sapessi più di loro a riguardo. Notai, in quei giorni, che la gente non si sognerebbe mai e poi mai di inserire in un suo discorso le due parole accoppiate stavi e dicendo, con accezione interrogativa. I discorsi abortivano sul nascere. Decisi che forse sarebbe stato meglio parlare dei miei progressi in materia di diffusione letteraria. Ma successe con questi la stessa identica cosa che con gli altri. Si rompevano il cazzo come niente. Cominciavano a guardarsi attorno. A volte chiedevano l'ora. Dovevano andare. Certe volte anche mezzora prima del solito rientro. Certe volte mi si addormentavano accanto, in macchina. Uscivano roba di grande fantasia pur di non ascoltarmi. Come se gliel'avessero vietato seriamente. Pena defalcazione del pene. Suturazione vaginale per le donne. Una cosa grave.  Mi dissi che come scrittore non valevo un cazzo. Ma certo come conversatore, neanche quello. Riguardai il mondo cancellato alle mie spalle. Mi venne da ridere. Questi non sapevano niente. Io ero il più grande scrittore esistente. E questi cambiavano discorso. Mi inventai un gioco. Cominciai a parlare d'altro, con chiunque. Diedi ad ognuno degli spazi limitati. Calcio e fumetti a uno. Musica e film a un altro. Lavoro a quasi tutti gli altri. Le donne le concessi più o meno a tutti, ognuno aveva le sue cazzo di storie. Smisi progressivamente di parlare del resto e finalmente tutti videro lo scrittore inabissarsi nelle profondità a cui era stato destinato. Fine della storia. Tutti erano contenti così ed alla fine, anche se controvoglia, decisi che ne sarei stato contento anch'io. Dopotutto era quello che avevo voluto prima di tutti. Forse il mio desiderio si era semplicemente avverato. Ma amavo fottutamente ancora quel cazzo di ticchettio che fanno le dita veloci sulla banalissima tastiera di un computer. Presi a battere le tesi a un euro a pagina.              

lunedì 22 dicembre 2008

La tua strada non è necessariamente la tua strada.

Avevo riletto Skizzando nel vento in un moto nostalgico dei bei tempi d'oro di quando con gli editori almeno ci parlavo. L'avevo finalmente trovato una vera e propria cazzata. Come tutto quello che avevo scritto. Sembrava che stendessi capolavori che col tempo si disfacessero lentamente. Sembrava che fossero proprio le parole a cambiare. Con gli anni andavano in putrefazione, doveva essere un bug di word a dare questo effetto. L'ultima raccolta di racconti invece si era putrefatta piuttosto velocemente. Però avevo ancora le mie convinzioni. Avevo il materiale nuovo. Il bug ci avrebbe messo anni per rovinarlo. Avevo Malko che stavo quasi per terminare. E la prima raccolta al mondo di poesie che non si chiamano poesie. Le Mejfy insomma. Duecentodieci testi in tre mesi. La prima vera risposta ai fiori del male di Baudelaire. Finalmente.  Diedi il resto di Malko al mio amico. Così adesso poteva stendersi la sceneggiatura del suo film. Preparai una poltrona di fronte al computer a casa mia. Raccolsi mia moglie incinta per la mano. La portai di là. La feci accomodare e le mostrai con la mano il regalo che gradiva di più: il mio continuare a scrivere. La notte in cui trasportai Malko, parte seconda. Non se l'aspettava nemmeno. Era la cosa che avevo mai scritto ad esserle più piaciuta. Non le avevo detto che l'avrei continuato. Era una sorpresa. Iniziammo a leggere. A neanche metà della lettura mi scostò violentemente ed iniziò ad urlare - Tu sei pazzo, io sono incinta, non posso leggere queste cose -. Aggrottai le sopracciglia. Il racconto in effetti era un po' forte, ma Malko era così. A lei piaceva. Forse l'avevo spaventata, ma era proprio questo l'effetto che volevo suscitare. -Era proprio questo l'effetto che volevo suscitare - le dissi. C'ero riuscito, ero contento. Si incazzò ancora di più. Non capivo perché non condividesse la mia gioia di aver stesso un racconto horror di grande effetto. Se ne andò via.Il mio amico non mi parlò mai più di Malko. Anche lui era sembrato in principio quasi più felice di me di ciò che avevo scritto. Tu li accontentavi. E loro tiravano i calci. Decisi che dovevo rilassarmi. Stavo andando troppo in fretta. Continuavo a sentire il peso del tempo sulle mie spalle. Credevo che sarei morto presto. Davo il massimo valore al tempo, non volevo perderlo. Pensai che forse fosse arrivato il momento di chiudere tutto, di lasciare stare. Stavolta per davvero. Avevo scritto in tutto otto libri e sedici o diciassette raccolte di poesie. Poteva bastare. Tutto faceva schifo. Anche Malko. Anche a mia moglie. Mmm. Che scrivevo a fare?Perché perdevo così il mio tempo? E i miei soldi, dato che ne avevo investiti cento per mandare i testi e trenta per le tre copie del cazzo? Potevo farmi un bel televisore con quei soldi, all'epoca. O migliorare i regali per mia moglie. E poi c'era la bimba che stava arrivando. Era tutto un casino. Ci pensai seriamente: perché cazzo spendevo il mio tempo stendendo una lettera dietro l'altra senza che ce ne fosse motivo? Di che parlavano i miei testi? Mi misi di fronte a me stesso. Al mio alter ego letterario. Gli chiesi che cazzo volesse ancora da me. Chinò la testa. In realtà non aveva mai voluto niente, semplicemente gli piaceva la mia compagnia. E a me la sua, un tempo, mi ricordò. Gli chiesi perché dovesse essere così, che cosa c'entravo io con gli Scrittori. Gli Scrittori avevano vite particolari ed avventurose, avevano viaggiato. Conoscevano un sacco di città. Avevano studiato tanto. Avevano frequentato un sacco di gente. Parlavano delle cose che scrivevano. Riuscivano a pubblicarle. Avevano partecipato alla storia. In maniera attiva. Avevano avuto tante donne. C'avevano qualche cazzo di cosa interessante che io non avevo e non avrei mai avuto. Insomma gli feci la menata perché lui da me queste cose non poteva ottenerle. Mi venne da piangere. Non potevo scrivere e basta. Sembrava semplice. Ma la cosa si complicava ogni giorno di più. Forse piansi. Alla fine aveva vinto l'incomunicabilità. Nessuno aveva capito il mio alter ego. Neanche chi mi stava più vicino. Ed io avevo finito per non capirlo più, anche. Avevo sposato il parere degli altri. La loro indifferenza nei confronti di qualcosa a cui volevo che partecipassero. Di cui volevo che potessimo quantomeno parlare. Il fatto che io ero stato uno scrittore sembrava non interessare più a nessuno. Tutti erano cresciuti. Io avevo ancora un sogno. Mi resi conto che senza volerlo perdere, il tempo buono ormai l'avevo già perso. Decisi e questa volta fermamente che Malko chiudeva la stagione in cui avevo creduto di essere stato uno scrittore. L'avrei dimenticato anch'io, come facevano tutti. Adesso sarei finalmente diventato un cameriere. E poi, se dio lo voleva, un educatore e pace all'anima dei morti.   

domenica 21 dicembre 2008

Gli scrittori sono coglioni vestiti a festa

Mi sentivo molto motivato. La mia battaglia per venire era a galla si era rivelata molto più dura di quello che pensavo a sedici anni. Io guardavo ancora avanti. Però cominciavo a voltarmi indietro. Iniziavo a pensare che forse avrei dovuto accettare di correggere Skizzando nel vento, che forse avrei dovuto continuare a contattare gli editori e non perdere tutto il mio tempo nelle stupide dispute letterarie sui vari siti che avevo frequentato. E' che la polemica mi eccitava, soprattuto quando partiva da altri. E mi riguardava. Con le case editrici era una cosa a senso unico, non c'era dialogo e quindi possibilità di scontro. Decisi di scrontrarmi anche con loro, fronte contro fronte. Come gli alci. Iniziai contattando tutte le case editrici il cui nome mi dicesse qualcosa direttamente da internet. Contattai Stampa Alternativa, il Foglio, il Filo, Edizioni Creativa, Delos Book e tutte le altre il cui nome mi stesse quantomeno simpatico. O almeno il sito e quello che c'era scritto in home. Tutte si proponevano come la casa editrice diversa, quella che non ti frega e che non vuole spillarti i soldi. Bene. Io soldi non ne avevo. Tutte volevano investire sugli esordienti. Bene. Io ero esordiente. Tutte avevano nuovi metodi di diffusione, non come le grandi case editrici. Bene. Io amavo i nuovi metodi di diffusione. Scrissi a tutte una mail. Nel frattempo andavo su neteditor per vedere che cosa succedeva sul fronte Mejfy. Sempre più messaggi negativi. Mejfy non era un genere. Prima le mie non erano poesie. In conclusione io non scrivevo niente. Mi concentrai sulla mail alle case editrici. Controllavo assiduamente la posta. Certe volte passavo interi pomeriggi saltando da un sito all'altro nella speranza di una singola nuova visita sui miei messaggi e sui miei testi sparsi anche su Athena Millennium e altri siti. Stavo diventando paranoico e la letteratura non mi affascinava più così tanto. Alla fine lasciai perdere tutto. L'amico a cui avevo affidato Malko se ne venne una sera che avevo dimenticato anche di averglielo dato. Scese dalla macchina sorridendo. Mi restituì la raccolta di racconti che avevo stampato per festeggiarne la stesura. Sorrisi anch'io pensando che pensasse che fosse una cagata. - Ho trovato la trama del primo film che girerò - mi disse. Era fissato con il cinema, studiava per inseguire il sogno di diventare regista. - E qual è? - gli chiesi, pensavo non c'entrasse un cazzo con il testo. - Malko - mi rispose. Mi guardai attorno. Era il mio. L'avevo inventato io. Senza dubbi. Gli era piaciuto così tanto che mi chiese di continuare a scriverlo, di tirarlo fuori dalla raccolta e di farne un romanzo intero. Ci pensai su. La mia ragazza, alcuni mesi dopo divenne mia moglie. C'era una cosa che chissà per quale arcano mistero le stava crescendo nella pancia. Aveva letto tutto quello che avevo scritto fino ad allora e nel tutto c'erano grandi opere come Skizzando nel vento, Una di quelle notti, l'Opera e 5. Il testo della vita per uno scrittore come me. Aveva detto di Malko, una volta letto, che era persino meglio di 5. C'ero rimasto di merda. E comunque non me ne ero accorto assolutamente. Chissà per quale ragione decisi di continuare Malko. Lo continuai. Avevo avuto per le mani l'idea geniale e non me ne ero reso neppure conto. Che scrittore di merda. Le case editrici risposero. Mi fermai. Dissi che era il momento buono: contatti editoriali + il testo geniale scritto per metà con il resto già in mente compreso il glorioso finale. Un'accoppiata perfetta. Andai a leggere i loro messaggi. Stampa Alternativa diceva che non accettava nuove proposte. Il Foglio sì. Il Filo sì, ma meglio le poesie. Ragionai. Avevo il Foglio dalla mia parte. Andai a leggere la risposta di Edizioni Creativa. Io avevo scritto "Come posso fare per mandarvi il materiale? Tramite mail, posta ordinaria, piccione viaggiatore?". Loro mi risposero solo "Innanzitutto firmandoti alla fine del messaggio" e sotto c'era la firma di chi me l'aveva inviato. Mi fermai a ragionare. Questa gente era convinta che uno scrittore fosse un coglione vestito a festa. Non risposi mai più a Edizioni Creativa. Tornai sulla Stampa Alternativa. Mi incazzai. Le scrissi una lunga lettera in cui chiedevo che cazzo di casa editrice potesse proporsi come alternativa se non accettava nuove proposte. Le chiesi di cambiare il nome in Senza Alternativa e forse mi risposero ancora più incazzati dicendo che io non ne sapevo niente del mercato e di quanto fosse difficile lanciare un nuovo autore. Bene. Non accettavano la sfida. Avevo creduto molto in loro. Avevo persino acquistato una serie di cazzate da mille lire che si vendevano nelle edicole di Bari, leggendo un sacco di stronzate tipo racconti horror ispirati al Grande Fratello scritti come il cazzo. Mi ero convinto che era con loro che avrei dovuto cominciare. Mi piaceva la linea editoriale. Ma loro avevano un parere diverso. Mi dimenticai della loro esistenza. Le case editrici cercano i lettori, più che gli scrittori. Risposi solo al Foglio e al Filo. Per non perdere tempo e fiducia, cercai altre otto case editrici random e inviai nove copie nove di Malko completo a tutte loro. Al Filo ci mandai due poesie tramite internet. Chiedevano 30 euro per tre copie di un'antologia contenente anche la mia 'poesia' che avrebbe dovuto girare per i convegni letterari tra scrittori, editori, eccetera. Spedii le 30 euro, mi arrivarono le 3 copie e mi rilessi solo la mia poesia una cinquantina di volte su ogni copia. La mia prima pubblicazione. Non mi era costata molto. O forse sì? Ne andavo orgoglioso lo stesso. Il Foglio fu l'unica casa editrice a rispondermi. Tre giorni dopo. Neanche il tempo che Malko fosse arrivato a destinazione. Mi mandarono un fascicolo pieno di promozioni per i testi che avevano già pubblicato. Insieme c'era una lettera che elogiava il mio Malko. "Soprattutto lo stile, sciolto e deciso" e roba del genere. Del contenuto non parlava mai. Il Foglio voleva che acquistassi non so quante copie a metà prezzo. A metà prezzo, mi dissi, è un buon affare. Ma che me ne facevo di tipo 100 copie? Gli amici che l'avrebbero anche acquistato erano appena dieci. Mmm. Forse solo nove mi davano i soldi.   Tornai su internet, decisi che fosse il momento di investire. Andai a visitarmi il sito del Foglio. Se valeva la pena la cosa si poteva fare. Glielo scrissi per e-mail. Visitai il sito. Dei giovani autori non c'era traccia. In tutto c'erano solo Giordano Lupi e altri due o tre. Giordano Lupi era quello con cui avevo il contatto, chi gestiva la casa editrice da quanto avevo capito. Chiesi delucidazioni. Mi risposero scrivendo che loro vendevano solo on line tramite quel sito e che dei giovani autori sì e no si riuscivano a vendere cento copie di un testo. Quello era considerato un vero successo. Feci due conti. 100 per 10 euro di copertina più o meno veniva mille. Mettiamo che a me fosse il 50 per cento io prendevo cinquecento euro. Bene. Avrei dovuto stendere più o meno due libri al mese per campare. Era un buon inizio. La visibilità era comunque zero. Ci pensai. Mi resi conto che forse non avremmo fatto altro tutti quanti che aiutare Giordano Lupi a sfondare con i nostri investimenti. Era un buon piano. Non risposi più al Foglio. Nove cazzo di copie del mio testo più spese di spedizione mi erano costate circa cento euro. Non ne avevo cavato un ragno dal buco. Otto case editrici non mi avevano cagato neanche di striscio. Poco tempo dopo trovai un messaggio del Foglio sulla mia posta elettronica. Pensai immediatamente che fosse un soleccito per la risposta se procedere o meno con la pubblicazione. Anzi no, pensai. E' senz'altro la lettera in cui scrivono che ci hanno ripensato, che Malko è troppo bello e me lo pubblicano senza che io acquisti le loro copie. Anzi no, pensai. Me le regalano persino le copie, per fare promozione, si regalano sempre copie del testo all'autore nei romanzi di Stephen King. Aprii la mail. Era un messaggio pubblicitario di un testo di Giordano Lupi che era andato a Cuba e gli avevano fatto un'intervista o forse l'intervista l'aveva fatta lui a qualcuno di imprecisato. Il testo si poteva acquistare sul sito del Foglio. Chiaro? C'era anche una mail delle Edizioni Creativa.  Ecco, si erano incuriositi e adesso mi chiedevano quale fosse quel famoso testo che avrei voluto inviare loro. Dovevano aver saputo che altre case editrici ci avevano messo le mani sopra, che non avevano più l'esclusiva. Magari una notizia trapelata dalla Delos che non mi aveva più risposto. No. Mi chiedevano se volessi acquistare libri. Mi sembravano i rappresentanti delle enciclopedie di quando facevo le scuole elementari. Con questi non si potevano fare gli affari. No proprio.   Però avevo le mie tre copie dell'antologia dei poeti del Filo. Andai a rileggermi un'altra cinquantina di volte ciascuna la mia fantastica poesia aspettando che la leggessero gli editori veri. Quelli dei convegni. Quelli quali? Quelli lì, insomma.   

venerdì 19 dicembre 2008

Questione di stile.

Il colpo di coda è quello che ti frega. Quando ormai sei morto e stai cadendo, le ultime energie che hai le sfrutti per lanciare, in extremis, l'ultimo fendente. E spesso è quello fatale per i tuoi nemici. Il mio colpo di coda lo diedi su neteditor, postmortem, pubblicando tutto d'un fiato Skizzando nel vento e Malko, sperando così che qualcuno potesse leggersi quei mallopponi e magari trovarli interessanti. Io non mi sarei mai più dedicato alla cosa e dopo mesi e mesi di silenzio, improvvisamente il mio colpo di coda avrebbe avuto effetto: Mondadori in persona mi avrebbe chiamato personalmente per chiedermi dei due testi che erano apparsi per due soli giorni in internet e che avevano scosso chiunque in quei due giorni li avesse scaricati. Tanto che la notizia era arrivata a lui. Quando due giorni dopo andai a toglierli (giusto il tempo che scomparissero dalla home) e notai che le visite erano state una o due, mi dissi che non c'era dubbio. Quell'uno era stato Arnoldo Mondadori. Il secondo Jack Cat per ridermi alle spalle. Di leggende se ne sentono tante. C'è quella dello scrittore che aveva mandato invano il suo romanzo ad una famosa casa editrce che non l'aveva richiamato per anni e che casualmente capita tra le mani della donna delle pulizie che lo legge e che diventa (ahi ahi) la donna del capo redattore e lei si innamora del romanzo al punto che lo convince a contattarne l'autore. C'è quella di Melissa P. che manda dieci copie del suo romanzo alle più grandi case editrici italiane e una pensa di investire su di lei. C'è quella di Susanna Tamaro che mentre firmava per Baldini & Castoldi fu contattata da Mondadori che aveva saputo che la Baldini si interessava a lei e si era ingelosito dopo che mesi prima aveva scartato Va' dove ti porta il cuore. C'è quella di Moccia il cui libro esplode in rete e viene diffuso per fotocopie finché un editore non gli propone la pubblicazione. C'è quella di Luther Blisset che stessa cosa ma non si sa neppure chi sia in realtà. Il mondo letterario è fatto di leggende. Di casi letterari. E io credevo nel caso. Decisi il da farsi. Nel frattempo passai Malko ad un mio amico che voleva leggere per forza qualcosa di mio e lo lesse la mia ragazza che leggeva tutto ciò che scrivessi. Era un racconto di cinquanta pagine messo insieme ad altri racconti in una raccolta. Faceva cagare peggio del resto. Me ne dimenticai pure che esistesse. Pensai che forse sarei tornato a contattare le case editrici tradizionali. Utilizzai internet per cercarle e visto che c'ero mi scaricai i manuali per 'scrivere meglio'. Così dicevano. Uno era pure di Umberto Eco. Uno scrittore. Dava consigli. Avrei scritto meglio. Dal momento che per tanti anni avevo scritto stronzate a ripetizione senza preoccuparmi di avere un metodo o cose simili e visto che tutti i miei due lettori me lo rinfacciavano, mi misi con tutta la buona volontà a studiare per migliorare il mio stile. Semmai ci fosse stato, non si sapeva mai. Era per quello che nessuno mi seguiva, adesso lo sapevo. Non poteva essere altrimenti. All'inizio a dire il vero pensavo fossero i titoli dei testi. Poi capii che dovevo studiare. Studiai. Tutti i manuali dicevano le stesse stronzate. (Poche parentesi nei testi). Evitare li erori gramaticali. E i punti esclamativi! Cercare di evitare il più possibile di dileguarsi o meglio dilungarsi in frasi troppo lunghe che incasinavano il discorso contribuendo a disorientare il lettore da quello che era stato l'inizio della frase ormai lontano al lontanissimo punto di arrivo che avrebbe raggiunto dopo lunghissime e tediose righe di attesa per giungere al finale della frase. Non ripetersi con ripetizioni o parole ripetute. Le elementari le avevo fatte anch'io, che c'entra? Esssse io percaso mi veniva in mente di riempire i miei testi con parentesi e punti esclamativi ((((Lallalà!!!))))? E se mi girava nella mente che forse avrei potuto usare un errore grammaticale per dargli un altro significato? No, no, no. Qui non si trattava di stile, qui si trattava di annullare quella specie di stile che hai. Anche se non ne hai voglio dire. Qui era peggio della psicologia che ti vuole entrare nel cervello. Qui dovevo scrivere come dicevano loro. Ma loro chi? Gettai i manuali nel cesso (me li ero pure stampati per studiarli meglio) ed aspettai che qualcosa nella mente del mondo letterario si aprisse. Da quel piccolo buchetto sarei passato io. Per ora se bisognava scrivere così, era meglio scrivere la lista della spesa. Almeno potevi decidere se mettere o non mettere i puntoevirgola.            

giovedì 18 dicembre 2008

Quante cazzate si possono scrivere in una sola vita letteraria

Io pensavo che sarei diventato uno scrittore. Non volevo diventare altro. Vabbé, a dodici anni volevo diventare calciatore ma non era un vero e proprio amore. Pensavo 'concentrati sullo scrivere, tira fuori il meglio' ma in realtà la mia situazione letteraria era molto squilibrata. Tiravo fuori il meglio. E subito dopo il peggio. Scrivevo un sacco di stronzate, insomma. E pensavo che prima o poi me le avrebbero pubblicate, mi sarei occupato solo di scrivere. Avrei avuto una stanzetta con scrivania, macchina da scrivere, finestra sul cortile, sigarette da montare e fumare e scrivere tutto il giorno quasi tutti i giorni. Cosa? Non lo so. Ah, e anche bere McCallan naturalmente. 18. Potevo vivere di questo per sempre. Era quello che mi piaceva per davvero. Invece mi trovavo a cercare di difendermi da degli assassini di sogni senza McCallan su un maledetto sito letterario che non ripagava le mie buone intenzioni di illuminare il mondo con il genere letterario più particolare che si fosse mai potuto concepire. Le Mejfy. Una vera rivelazione. Dopo quella di Cristo. Alcuni sposarono la causa ma si dissociarono da me. Pur tenendosi il termine. Alcuni non sposarono né causa, né me. Alcuni accusarono sia la causa sia me. Quelli erano i più tremendi. Jack Cat era il loro paladino, una bestiaccia che invocava le masse a rivoltarsi contro la scelta del curatore del sito di aver inserito il mio genere tra i generi. Voleva anche lui un genere per sé. Poi diceva che stava scherzando. Poi gettava merda sui miei testi e poi. Di letterario c'era ben poco. Nel tutto, voglio dire. Soprattutto in me. Mi chiedevo dove stavo andando. Se stessi andando per davvero da qualche parte. Mi chiedevo se non fosse ora di smetterla. Di scrivere, intendo. Un talento vero si sarebbe visto da lontano. Io mi ero dato già cinque anni. Tanto quanto un buon corso di laurea. Avevo ottenuto di perdere il contatto con Ladisa, il concorso con Baldini&Castoldi, i vari concorsi a cui partecipavo con poesie del cazzo e vincevano sempre poesie ancora più del cazzo al che pensavo che forse le mie non erano ancora abbastanza del cazzo e commenti completamente discordi sui vari siti che avevo frequentato. Un talento vero nel frattempo si sarebbe visto. Mmm... sì... ma il mondo non era ancora pronto. Nonostante la mia ignoranza di fondo, mi arresi. Chiesi al curatore di eliminare Mejfy dai generi, mi offesi per davvero, forse per la prima volta nella mia sottospecie di esperienza letteraria. Il mondo era di altri, quello letterario era altamente autoreferenziale. Non accettava le novità. Neanche quelle brutte. Lasciai che si litigassero loro l'osso e per l'ennesima volta, levai le tende e mi rimisi in strada. Neteditor. Il primo sito sui motori di ricerca. Quello da cui uscivano i veri scrittori. E io infatti ero uscito.  

Cercare una definizione precisa a tutto. Anche con la forza.

Schematizzare e catalogare è quello che un certo tipo di gente sa fare meglio. Gli schizzi incasinati spesso disorientano, non rientrano nei paramentri, belli o brutti, non si sa come definirli e la gente ha bisogno di dare una definizione precisa a tutto. Io non lo sapevo cos'è che scrivevo e quindi trovai questo termine sconosciuto che non definiva niente, ma che almeno racchiudeva in sé ciò che scrivevo. Pubblicai i miei testi su un sito appena scoperto. Si chiamava Neteditor, pullulava di letture e commenti, era il primo nel motore di ricerca. Da qui uscivano i veri scrittori. Non c'erano dubbi. I testi erano piccoli, scoordinati, parlavano di temi poco profondi ed erano basati solo su sensazioni, emozioni zero. Lo stile praticamente non esisteva, la punteggiatura messa a cazzo, parlavano di avvenimenti quotidiani, spesso troppo personali per essere capiti. Non c'era molto da capire. Forse niente. I commenti furono pochi ma unanimi: i testi erano particolari e si facevano leggere bene anche perché erano scritti di getto quindi particolarmente fluidi, senza correzioni. Con orrori grammaticali a volte. Una cosa strana. Decisi di anticipare i futuri commenti negativi spiegando che queste non erano poesie, prima che se ne accorgesse qualcuno, ma non potevo farlo pubblicando una definizione tra i testi: sarebbe stata in home page per uno o due giorni soli. Mi serviva una cosa permanente. Per la prima volta decisi di scoprire che cosa significava quella scritta in piccolo che appariva su molti siti che metteva insieme le lettere f o r u m. Mi sembrava c'entrasse qualcosa con quello che cercavo. Ci entrai. Sembrava una cosa permanenete, c'erano messaggi datati parecchio vecchi. Entrai nella sezione che riguardava i generi letterari, mi sfregai le mani, intitolai l'argomento Mejfy e mi misi a scrivere un sacco di cazzate che cercavano di definire il genere. Ma il genere era indefinito anche se alla fine quello che scrissi rispecchiava bene lo stato confusionale in cui annaspavo. Andai a cenare e non mi preoccupai più della cosa, sicuro che una cosa con un nome come f o r u m non dovesse essere particolarmente visitata. Visto anche che io non ne avevo mai visitato uno in più di un anno di permanenza in internet.  La sera tardi mi rimisi a scrivere. Scrivevo senza interruzioni. Mejfy a raffica. Ascoltavo i Coldplay e scrivevo. E si facevano le quattro di mattina. Andai a vedere se i miei testi avevano riscosso il successo che meritavano. Niente. Neanche un commento. Pensai di vedere se magari qualcuno aveva letto il mio argomento nel f o r u m. L'avevano letto. E commentato. Pensai che forse avrei iniziato a scrivere solo nei f o r u m. Il primo commento diceva qualcosa tipo: mi è piaciuto così tanto questo intervento che ho inserito mejfy tra i generi. Adesso bisognava decodificare il messaggio. Lessi gli altri commenti. Tutti riguardavano i generi e la gente si era un po' incazzata per il commento che non avevo ancora capito. Decisi che per capire gli altri avrei dovuto capire il primo. Allora. Chi l'aveva scritto era forse un certo Luca Corrieri e da quel che ricordavo era uno che gestiva il sito. Il commento arrivava quindi dalla redazione. Inserire mejfy tra i generi. Mmm. Forse i generi letterari. Non poteva essere. Andai a pubblicare una cosa appena scritta e feci scorrere il cursore tra i generi. Mejfy non c'era. Tanto ormai l'avevo quasi pubblicata, scelsi la categoria. Mejfy. Era lì. Tra le categorie del primo sito nel mototre di ricerca, quello da dove uscivano gli scrittori veri.  Mi guardai attorno, raccolsi il foglio con le lettere dell'alfabeto. Lo girai. Mejfy. Sì, l'avevo inventato proprio io, non mi stavo sbagliando. 

mercoledì 17 dicembre 2008

Tristi divagazioni sentimentali su quanto una poesia non sia poesia pur sembrando tale

Per quel signolo lettore a cui la mia traccia di penna arriverà restando impressa a vita, io scriverò, ma soprattutto pubblicherò quanto ho da pubblicare. Questo mi dissi riprendendo con buona volontà ad occuparmi dei meccanismi internettiani e delle frequenze su cui lanciare i miei messaggi più intimi traendoli direttamente dalla materia informe universale e dando loro una specie di forma scritta. Che cazzo ho scritto? Comunque. Liberodiscrivere non era il posto per me. O forse lo era perché nel frattempo che scrivevo ancora non avevo trovato un degno sito con cui sostituirlo. Tutto questo finché Antonello Cassan non mi mandò una mail su cui scriveva che lo stato del sito cambiava e che stava per diventare a pagamento. Costava poco. Ma io non avevo neanche quello da investire. Mi diedi tempo un mese per pubblicarci ancora e poi avrei levato le tende. Pubblicai ancora e i commenti negativi tornarono. 'Questa non è poesia, poesia, oesia, esia, sia, ia, ia'. O. Decisi che qualcosa non andava o che qualcosa dovevo fare, non c'era verso, o meglio c'era, ma non era considerato poesia, appunto. Punto. Una sera del gennaio letterario più triste che avessi mai vissuto scrissi una cazzata veloce veloce. Si chiamava Radio Ga Ga dedicata al grande Mercury. Più tardi scrissi un altro testo. Più tardi ancora un terzo. La mia non era poesia. Che scrivevo a fare? Il giorno dopo scrissi un testo. La mattina. La sera altri tre. Cazzate veloci veloci. Ma non erano poesie. Presi un foglio, ci feci le lettere dell'alfabeto cerchiate, lo girai e tristemente, con una mano sotto il mento, lo bucherellai cinque volte pensando che dovevo smetterla con quelle stronzate e trovarmi un interesse vero. O quantomeno un lavoro. Girai il foglio e le lettere che avevo bucato componevano la parola Mejfy. Nell'ordine. Che razza di interesse poteva essere mai quello, certo che di un lavoro con quel nome non avevo mai sentito parlare? Pensai tristemente alle mie poesie. E pensai che se non erano poesie allora potevano essere... com'è che era uscito scritto? Mejfy. Mmm, forse le lettere dell'alfabeto inglese potevo anche evitare di metterle.      

martedì 16 dicembre 2008

Serenità del non capirsi

Un minimo di coerenza. Presentarsi come un poeta. Rivoluzionario. Anzi no. Più facile sarebbe stato colpire con frasi ad effetto stese in struggenti poesie d'amore. Mmm... Sembrava avessi un enorme rotolo di carta bianca su cui poter scrivere esattamente quello che volevo, messo in bella vista a tutti gli utenti internettiani che sarebbero passati da LetterArea. Il primo sito che trovai e che mi sembrava ben fatto. Sì, però un minimo di coerenza, non come al solito. Decisi semplicemente di pubblicare le ultime cose che avevo scritto. Erano tremendamente ben fatte, riguardavano il mio primo periodo universitario, la riluttanza all'essere erudito da qualche borioso professore stagionato, la voglia di riprendere le vie delle mie terrazze solitarie, dei miei campi aperti. Bene bene. Pubblicai il tutto e stetti a guardare, ma non succedeva niente. Mi annoiai nell'attesa, sbadigliai. Andai a cenare. Nei giorni successivi arrivò il primo commento. Era positivo. Era dello stesso curatore del sito. Mi piacque, decisi di pubblicare ancora. Pubblicai ancora, ma la poesia non era particolarmente seguita, decisi di scrivere un racconto, in alternativa avevo solo romanzi. Troppo lunghi per essere seguiti in rete. Scrissi il racconto in un pomeriggio, lo inviai. Si chiamava la passeggiata e non era il massimo, però poteva andare.  Il giorno seguente fioccarono i commenti, due, tre, quattro. Mi sfregai le mani e li andai a leggere, ma c'era qualcosa che non andava: erano negativi. Mi dissi 'Fermo, fermo, rileggi bene, magari oggi sei un po' dislessico'. Lessi ancora. Erano negativi. Mi guardai attorno. Andai a cercare tutti i personaggi che mi avevano commentato e lessi la loro roba. Faceva cagare. Glielo feci notare. E fu così che iniziò la mia prima diatriba internettiana, pubblicai ancora pensando 'Adesso li ho sistemati' ma sembrava non ci fosse altra gente a parte quei quattro scassaballe, tornarono alla carica e mi affossarono di botte letterarie. Pensai se pubblicare ancora, nel frattempo non avevo niente di nuovo, scelsi tra la roba vecchia. La cosa cominciò ad infastidirmi. Stavolta zero commenti. Forse era meglio la diatriba. Decisi che se era così allora sarebbe stato meglio non pubblicare e così dopo tre testi abbandonai il sito, pensai che tanto ce n'erano altri e andai a cercarmeli. Finii su Liberodiscrivere, ripubblicai gli stessi testi per vedere se qui qualcuno ne capisse di più, di poesia e racconti, ma dopo il primo commento positivo, ripresero a tartassarmi nuovamente. Quello che si difendevano era che non avevo stile, non seguivo la metrica eccetera eccetera. Il commento positivo fu: 'Mi spiace, ma devo dirtelo: questa per me non è poesia'. La positività stava nel fatto che gli dispiaceva. Mi inalterai alquanto e andai a trovare anche questi altri personaggi, lessi la loro roba. Faceva cagare. Glielo feci notare. E si permettevano di gettare merda sulla roba altrui? Come funzionava? Mi fermai un attimo a pensare e mi dissi che forse internet non era il posto giusto dove pubblicare la propria roba, perché chi bazzicava i siti letterari non erano i lettori (io credevo che esistessero) ma gli scrittori stessi e quindi i giudizi erano tutti condizionati dalla volontà di emergere più che quella semplice di leggere. Decisi che non avrei mai più pubblicato su internet e che, semmai, avrei cercato di lì qualche casa editrice. Andai a dormire. Il giorno dopo nella mia casella di posta c'era un messaggio. Anonimo. Di un ragazzo che aveva letto una mia poesia che si chiamava Serenità del non capirsi. Era una lettera e diceva che ero riuscito a rendere perfettamente quello che lui aveva sempre provato nei confronti di se stesso, mi ringraziava per la poesia, mi incitava a continuare a scrivere. Più che il commento mi piacque il fatto che il messaggio era stato spedito alla mia casella di posta, il che dichiarava l'assoluta sincerità di chi me l'aveva spedito. Fui così contento che decisi che Serenità del non capirsi era la mia più bella poesia. E gli altri non potevano capire.     

venerdì 12 dicembre 2008

Concentrarsi sullo scrivere

Decretai che nessun editore avrebbe più rivisto il mio nome steso nella copertina sulla sua scrivania. Mi concentrai sullo scrivere. Concentrati, concentrati, mi dicevo. Non guardavo mai al rigo appena scritto ma pensavo al successivo e magici scenari si inseguivano nella mia mente a scuola, a casa mentre guardavo un film o leggevo un libro, al lavoro mentre servivo stupidi commensali ben vestiti che cercavano di mostrarsi al meglio. Dovunque fossi fisicamente, in realtà io ero oltre. Oltre la realtà. Non capivo bene le cose, le lasciavo indietro, non mi curavo mai di imparare dai miei errori. Cercavo di bruciare il più in fretta possibile, come se non avessi tempo, i 21 anni si avvicinavano, dovevo fare prima di Brizzi, ma a ben pensarci io tanto un editore non l'avrei più contattato. Perché? Intuivo che dovevo allontanarmi, cercare altre strade per il momento, dare sfogo alla mia creatività senza occuparmi di ciò che mi sarebbe successo, non mi preoccupavo del futuro, in realtà non lo vedevo. Credevo che sarei morto presto e per questo mi davo fretta nello scrivere al massimo delle mie capacità. Non perdevo un minuto. Scrissi quattro libri in quattro anni. Non bastava, accelerai. Scrissi dieci libri in sette anni. Non bastava neanche questo e così scrissi ventidue raccolte di poesie nel frattempo. Finito. Avevo percorso l'intera carriera della media degli scrittori di successo in soli sette anni. Una volta calcolai che se si fossero stese per terra tutte le cose che avevo scritto, rigo per rigo, sarebbero arrivate alla distanza di circa venti chilometri dal punto di partenza. Cazzo, non ero andato molto lontano, ma potevo continuare, solo che adesso non ne avevo più molta voglia. Forse avevo esaurito tutto quello che avrei dovuto o voluto dire. Mi fermai. In tutto quello che avevo scritto non esisteva coerenza. Sfogliavo le pagine con la bocca spalancata, le lanciavo indietro, prendevo un nuovo testo. Niente. Qualsiasi cosa sembrava scritta da una persona diversa, con diversi interessi, con una diversa storia di vita, con diverse motivazioni. Mi dissi che forse questo era sucesso perché io in realtà non avevo mai avuto motivo di scrivere. Allora perché avevo scritto così tanto? Forse perché leggevo le cazzate che giravano nelle varie epoche del mio periodo letterario e mi mettevo semplicemente in competizione con i vari autori. Pensavo: io posso fare di meglio. E scrivevo. Nient'altro. Beh, questo era un buon motivo per aver scritto. In fondo, pensandoci bene, ogni cosa che avevo fatto, io l'avevo fatta meglio per davvero. Saperlo non mi bastava, ne volevo la conferma matematica. Mi lanciai su internet, lì si trovava la risposta a qualunque domanda. Cominciai a chiedere. Ma le risposte tardarono ad arrivare.  La mia connessione a 56k non era delle più veloci.

martedì 9 dicembre 2008

Il Meccanismo. Ovvero come per coronare un sogno, i sogni vanno messi da parte

Dunque il problema erano le case editrici. Mmm... vediamo un po'.

La mia prima volta con una casa editrice fu con la Baldini&Castoldi subito dopo il netto rifiuto della Mondadori. Diciamo che puntavo in alto.Avevo sedici anni ed avevo scritto un libro. Intero. Storia originale. I quarantenni venivano già definiti all'epoca scrittori esordienti e c'era Enrico Brizzi che a 21 anni aveva steso Jack Frusciante ed aveva venduto mi pare un milione di copie. Caso letterario + scrittore esordiente. Io avevo sedici anni, cinque di meno.Ce l'avete presente quando un manipolo di stupidi adulti stanno cercando affannosamente un oggetto di vitale importanza e tu che sei piccolo piccolo riesci ad infilarti da una parte dove quel maledetto oggetto riesci a trovarlo? E ce l'avete presente quando poi quell'oggetto, acciuffi l'angolo della giacca del primo adulto e cerchi di mostrarglielo, ma ti rendi conto che essendo così alto percepisce soltanto ciò che viene detto alla sua altezza e che quindi non può sentirti?Bene, io ero il bambino ed avevo trovato l'oggetto, ma per quante giacche tiravo, nessuno aveva la pazienza di chinarsi ad ascoltarmi. Sapete perché? Era troppo impegnato a trovare l'oggetto.Baldini&Castoldi fu all'epoca l'unico adulto che senza neppure voltarsi verso di me, mi disse almeno "Sì, sì, ti ascolto" mentre continuava a dar retta ad altro. Ma tutto questo non avvenne per grazia: avevo beccato il famigerato concorso per esordienti e neppure lo sapevo. Fu per questo che accettarono di visionare il mio testo, e io che credevo che mi stessero ascoltando soltanto perché fossi un bambino!Certo che anche il nostro incontro fu un caso.Il giorno che chiamai la Mondadori e mi dissero che non accettavano nuove proposte ci rimasi di merda. Scesi da casa e decisi di farmi una passeggiata per rimuginarci su e vedere il da farsi. Finii fermo a pensare davanti ad un'edicola e, sovrappensiero, colsi il nuovo capolavoro di Brizzi. Lui con la sua cagata di amore adolescenziale ce l'aveva fatta.Entrai nell'edicola e raccolsi il libro, con rabbia. Andai dritto all'ultima pagina: Baldini&Castoldi, via Crocefisso 21, Milano. Mi fiondai a casa a reperire il numero e il resto l'ho già scritto prima.A quell'epoca, a sedici anni, conosci solo la Mondadori, la Fabbri editore, la Deagostini e qualche altra casa editrice che senti nominare in Tv. E credi, da stupido adolescente, che queste siano case editrici e che lavorino per proposte che vengono valutate. Credi davvero che la Fabbri pubblichi dei libri. Non sai che quelle case editrici sono case editrici da edicola, pubblicano solo best seller o testi classici, collezioni per deficienti. La Mondadori si è imposta sul mercato rompendo le palle a tutti gli scrittori famosi dell'epoca perché pubblicassero con lei qualche testo. Il suo fondatore era un imprenditore, non aveva un sogno letterario o culturale e da buon arrivista ha sistemato i suoi conti e ha mandato tutti a cagare. Ora pubblicano i libri dei vip o sui vip, non gliene frega più niente a questa gente se i veri scrittori se ne stanno nascosti nell'ombra mentre Oriana Fallaci può (o meglio poteva) alzarsi la mattina, scrivere una merdata e vendere in tutta Italia.A sedici anni queste cose non le sai. Credi che le case editrici siano il porto degli scrittori. Tu scrivi cazzate certo, ma credi che almeno te le valuteranno o ti daranno una possibilità. Invece stai facendo un gioco che credi sia la realtà.Io, tornando al dunque, la Baldini&Castoldi neppure la conoscevo. La conobbi per caso. Grazie a Brizzi. Mi diede delle speranze e questo bastò per farmi credere che un futuro, in un modo o nell'altro, ci sarebbe stato.Considerate che in quei sei mesi in cui il mio primo romanzo venne valutato (o magari non valutato) per il concorso, io stesi più di metà di Skizzando nel vento. Ciò vuol dire che continuai a scrivere. Quando arrivò la mazzata che il primo libro non aveva superato il concorso (strano, avrei creduto che a sedici anni mi sarebbe stato permesso presentare qualunque cagata), mi dissi sono a metà, tanto vale terminare questo secondo libro di merda.Se mi avessero risposto no sei mesi prima, io neppure ci avrei messo mano ad un'altra pagina bianca da riempire.  Ed invece, come per coincidenza, Skizzando nel vento era una stronzata sugli amori adolescenziali. Che caso! Proprio come Jack Frusciante bestseller di quel periodo pubblicato da Baldini&Castoldi!Per ringraziarla di avermi ascoltato, le stavo confezionando il regalo che più le si addiceva: un libro di merda con i criteri giusti perché vendesse a palate. Quando glielo mandai altri sei mesi dopo non furono dello stesso parere. Non c'era nessun concorso quell'anno. La Baldini si era fatta i soldi ed io avevo ormai venduto i miei ideali per niente. Poco importava, tanto se non avessi scritto Skizzando nel vento, non avrei scritto niente proprio in quel periodo, come infati fu.Dovevo ancora decidere se sarei diventato uno scrittore oppure se i miei ideali valevano ancora qualcosa. Optai per gli ideali e quindi non sarei mai diventato uno scrittore.    

domenica 7 dicembre 2008

Immagini sacre di un Pantheon tutto da rifare. O forse no?

Vedi vedi vedi i grandi scrittori. Vedi quelli che hanno avuto successo, quelli che hanno scosso l'opinione pubblica convergendo milioni e milioni di consensi/dissensi/critiche ed elogi sui propri testi. Vedi quelli che hanno fatto parlare di sé. Vedi quello che dicono, lascia stare quello che sono stati. Vedi come lo dicono. Vedi? Lo fanno ssssenza alcun dubbio in modo mmmmolto diverso da te. Qualunque cosa dicano o, meglio, scrivano. E' così perché sennò non sarebbero definiti Scrittori.  Tu invece, che cosa avresti dello Scrittore?  Fermo di fronte alla vetrina di una libreria nell'Ipercoop dove eravamo, me ne stavo a dirmi queste terribili cose mentre osservavo le copertine dei libri in versione cartonata che quell'anno si erano aggiudicati il posto in prima fila. I grandi Scrittori italiani. E io non c'ero. Qualcuno si era dimenticato di far pubblicare il mio testo. No, aspetta. C'era qualche problema di fondo: che cosa aveva portato quelle odiose copertine e quegli stupidi titoli ad essere pubblicati e messi in bella mostra proprio davanti a me? Davvero non avrei saputo dirlo, fatto sta che quei libri vendevano e questo era tutto ciò che bastava facessero per far ammettere i loro scrittori in un Pantheon tutto da rifare. Ma se qualcuno avesse pubblicato un mio testo? Certo, sì, sarei anch'io entrato nel Pantheon. London diceva che quello degli editori era un meccanismo complesso da prendere a mazzate finché qualcosa nel meccanismo non si rompeva. Dovevi essere più tenace di lui. Semplicemente. Il talento non contava. Il talento si crea, basta che qualcuno parli bene di te, ti faccia pubblicità. Per esempio una casa editrice. Certo, certo, è tutto fasullo, gli scrittori non esistono, gli scrittori vengono creati dalla gente e non necessariamente per merito reale. E allora che cosa stiamo a parlare a fare? Per spiegare a tutta questa gente che non stiamo parlando di niente. Io sono il più grande scrittore di tutti i tempi, che ci crediate o meno, datemi il tempo e ve lo dimostrerò. Devo solo aggiustare il tiro contro il meccanismo. Più o meno.